(Questo articolo è stato pubblicato in Osservatore Romano il 1 agosto 2017 nella festa di San Alfonso)
Con il magistero di papa Francesco alcuni grandi temi legati alla lunga tradizione della Chiesa sono divenuti oggetto di rinnovata riflessione in ambito teologico e pastorale. Certamente ritornano alla memoria due termini: misericordia e discernimento. Il primo è architrave che deve sorreggere la vita della Chiesa e la sua azione pastorale (Misericordiae vultus, 10). Il secondo, invece, indica l’atteggiamento che i pastori, i teologi, ogni fedele in Cristo, sono chiamati ad assumere e a vivere affinché tra i membri del popolo di Dio prevalga sempre più la logica della misericordia (Amoris laetitia, 312). Per questo motivo, ha detto il Pontefice nel dialogo con i gesuiti del 24 ottobre scorso, «va risvegliata quella grande ricchezza contenuta nella dimensione del discernimento» propria della «grande scolastica» e del «grande san Tommaso». La via del risveglio suggerisce il recupero di un terzo termine, anche questo noto alla tradizione della Chiesa ma forse bisognoso di una nuova comprensione a livello teologico e pastorale. Ci riferiamo alla prudenza, argomento abbondantemente trattato da san Tommaso (Somma teologica, ii–ii, qq. 47-56) e legato inscindibilmente al tema del discernimento personale e pastorale.
Il Catechismo della Chiesa cattolica ci ricorda, infatti, che «la prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo». Essa «è la “retta norma dell’azione”, così come scrive san Tommaso sulla scia di Aristotele (…) È la prudenza che guida immediatamente il giudizio di coscienza. L’uomo prudente decide e ordina la propria condotta seguendo questo giudizio» (n. 1806). Oggi, però, la prudenza non sembra essere una virtù al passo con i tempi. La crisi e lo smarrimento del suo significato e del suo valore teologico nell’ambito della vita morale si spiegano alla luce di un quadro storico ampio e complesso che trova il punto culminante nell’evo moderno, tra il XIV e il XVIII secolo. Ma la riscoperta di questa virtù morale e intellettuale è quanto mai importante ed è resa al quanto attuale dall’odierna riflessione magisteriale, teologica e pastorale. Una esigenza sollecitata in maniera sempre più forte anche dalla complessità cui fanno riferimento tutte le nostre decisioni. «Grazie alla virtù della prudenza — leggiamo ancora nel Catechismo — applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare» (n. 1806).
Sullo stesso argomento Alfonso Maria de Liguori, trattando del ruolo terapeutico del sacerdote nell’esercitare l’«officio di dottore», così afferma nella sua Pratica del confessore (1755): «Per ben esercitare tale officio è necessario al confessore conoscere bene la legge; chi non la conosce, non può insegnarla agli altri. Ma qui bisogna ricordare quel che scrisse san Gregorio, che l’officio di guidare le anime per la vita eterna è l’arte delle arti: ars artium regimen animarum (…) Alcuni dicono che basta, per confessare, possedere i principi generali della morale, poiché con quelli possono sciogliersi tutti i casi particolari. Chi nega che tutti i casi si hanno da risolvere con i principi? Ma qui sta la difficoltà: in applicare ai casi particolari i principi che loro convengono. Ciò non può farsi senza una gran discussione delle ragioni che son dall’una e dall’altra parte» (cap. I, n. 17).
In questo breve testo del santo dottore della Chiesa è possibile intravedere un chiaro richiamo all’importanza del discernimento morale nella prassi sacramentale e al ruolo che la prudenza assume in questo dinamismo della vita morale. Sant’Alfonso, con san Tommaso, insegna che «la verità del giudizio di coscienza che determina o almeno intima con autorità la scelta da fare qui e ora in ordine al valore morale da realizzare, è data dalla prudenza, intesa come saggezza, sapienziale ed esistenziale» (Domenico Capone, Il personalismo in Alfonso M. de Liguori, in Alfonso M. de Liguori e la società civile del suo tempo, Firenze 1990, p. 214).
Da vero dottore il santo napoletano elabora una teologia morale non semplicemente casistica ma prudenziale. Ossia un discorso morale centrato sulla persona intesa non come semplice produttrice di atti già “cosificati”, confezionati e previamente giudicati, ma come uomo concreto, creato per amore a immagine di Dio, e che nel suo agire è signore del proprio atto: creato in libertà, agisce da persona in intima amicizia con Dio in Cristo. Egli quindi si determina attraverso un’intelligenza che ragiona e una volontà che decide, e con piena libertà e con coscienza retta dà alla propria vita un senso con valore supremo per cui valga la pena vivere e convivere.
La dottrina della prudenza come mediazione tra legge e coscienza è elaborata da sant’Alfonso «non a tavolino» ma «piuttosto nel contesto di un discernimento pastorale carico di amore misericordioso, che si dispone sempre a comprendere, a perdonare, ad accompagnare, a sperare, e soprattutto a integrare» (Amoris laetitia, 312; cfr. Evangelii gaudium, 133). Domenico Capone, teologo redentorista e conoscitore del pensiero teologico-morale del suo fondatore, così esprime la pastoralità misericordiosa e prudenziale del patrono dei confessori e dei moralisti: il santo «stando a contatto col suo popolo di Napoli ne sperimentò non solo la saggezza del buon senso nell’evitare in morale gli estremismi, ma anche la capacità di crescita morale e spirituale se gli si faceva conoscere bene il Cristo e la sua verità evangelica». In questo modo si diventava «sempre più persona, onesta, e anche santa. Ma in questa scoperta vi è un aspetto che va sottolineato. Il rigorismo giansenistico scoraggiava i più deboli moralmente, cioè i “peccatori”. Alfonso invece, combatteva duramente il peccato, ma amava con tenerezza i peccatori ed andava in cerca soprattutto di essi. Li volle comprendere; volle che non s’imputasse loro come colpa quello che colpa non era. Soprattutto volle che si mostrasse loro con totalità l’amore di Dio Padre, che per essi aveva dato il suo Figlio Cristo e la Madre del Cristo, Maria; ma volle che la verità della legge, come norma in concreto, fosse comunicata con gradualità ai peccatori più deboli. Intendiamoci bene: egli non attenuò la radicalità della verità del Vangelo, ma evitò il radicalismo nel modo pastorale del proporla. Non solo bisognava guardare alla verità secondo l’oggetto, ma anche al farsi della verità come vita nel soggetto concreto, “qui ed ora”» (Capone, Il personalismo, pp. 255-256).
Ciò che Alfonso ha veramente a cuore è la salvezza delle anime, di tutte le anime. Come san Francesco di Sales, insiste nel dire che la santità è accessibile a ogni uomo: «Iddio vuol tutti santi, ed ognuno nello stato suo, il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercadante da mercadante, il soldato da soldato, e così parlando d’ogni altro stato» (Pratica di amar Gesù Cristo, in Opere ascetiche, i, Roma 1933, p. 79). Questa certezza è assunta da Alfonso come fondamentale criterio discernente ed è posta al cuore del suo pensare teologico-morale e del suo agire pastorale. «La conversione dei popoli — scrive nella Lettera ad un novello vescovo (1771) — è il massimo beneficio che Iddio fa agli uomini (…) Questo appunto è il fine delle missioni, la conversione dei peccatori; poiché nelle missioni essi dalle istruzioni e dalle prediche vengono illuminati a conoscere la malizia del peccato, l’importanza della loro salute e la bontà di Dio, e così mutando i loro cuori (…) cominciano a vivere da cristiani (…) e molti che da più anni non si sono confessati, o si sono confessati malamente, nella missione si confessano ben disposti» (in Opere ascetiche, III, Napoli 1871, pp. 25 e 27).
Alfonso quale pastore e dottore dotato di esperienza ed esercitata prudenza, matura e propone, anche per l’oggi, una pedagogia teologico-pastorale attenta alle reali domande della vita nonché rispettosa del percorso umano e delle effettive forze della persona ancora fragile. Nel suo ministero con i più abbandonati egli si fa portatore di quell’anticipo di grazia e di fiducia che rimette la persona in cammino, in un dinamismo di crescita nella carità affinché proprio quest’ultima si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di scelta, per poter discernere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo a gloria e lode di Dio (cfr. Filippesi 1, 9-11).
P. Antonio Donato, CSsR