Può essere utile, se non necessario, riflettere sull’importanza del bene comune come fine della politica, in particolare alla luce di quanto sta avvenendo in varie parti del mondo dove, per ricordare solo i fatti più recenti, un aumento del prezzo del biglietto della metro (Cile), l’applicazione di una tassa su chiamate via WhatsApp (Libano), la revoca dei sussidi per il carburante (Ecuador), ha scatenato una protesta popolare, esplosa a causa della disperazione che nasce dalla povertà e da situazioni di forte disparità di reddito tra la parte di popolazione più povera (la stragrande maggioranza) ed una minoranza ricchissima, costringendo la politica a recedere dai provvedimenti intrapresi e a rendersi conto che può essere pericoloso e dannoso per tutti sottovalutare le istanze della popolazione.
Il bene comune è un concetto che ha trovato accoglienza soprattutto nella riflessione cattolica, ma che nasce da molto lontano. Ne parla Aristotele, che considera “beni” i fini che l’uomo persegue nel suo agire, tra i quali il fine più alto è la costruzione della polis, la città, e dunque, il bene comune. In tutto il mondo greco avere a cuore la vita della cosa pubblica era di primaria importanza, tanto che chi non se ne interessava era considerato idiota (che sta a sé; uomo semplice, rozzo, privo d’istruzione, di scarsa intelligenza). Il concetto di bene comune lo troviamo poi nella civiltà romana nel significato di bene della collettività, la res publica, anche se non riceve grande attenzione ad eccezione di Cicerone e Seneca. Tornerà al centro dell’interesse nel XIII secolo, con S. Tommaso d’Aquino, che rielabora la riflessione di Aristotele e ne farà il perno della sua visione dell’uomo e della comunità umana. Da allora il bene comune si colloca al centro del pensiero cristiano e diventa principio fondamentale della Dottrina sociale della Chiesa, a cominciare dalla Rerum Novarum, fino al Vaticano II e, più recentemente, alla Caritas in veritate di Benedetto XVI e la Evangelii gaudium di Francesco.
Nella cultura laica, invece, il concetto di bene comune esce di scena fin dal primo Rinascimento e non è considerato da gran parte del pensiero filosofico e politico e dall’etica laica, dal secolo XV in poi. È ignorato dall’illuminismo ed è trascurato fino a buona parte del Novecento, quando viene ripreso da alcuni filosofi del diritto di matrice anglosassone, interessati alla nozione di giustizia sociale (come John Rawls) e dalla corrente degli economisti che si interrogano sull’esistenza dei beni collettivi (tra cui il premio Nobel, Elinor Ostrom).
Nonostante questa recente attenzione comunque, il bene comune non ha ancora recuperato il terreno progressivamente perso nella modernità e continua oggi a risultare per molti anacronistico, soprattutto per il permanere di una visione individualista dell’uomo, che scardina alla base la possibilità di fondare la sua socialità e dunque la politica su un dato oggettivo attorno al quale convergere. Con questa visione, la dimensione sociale dell’esistenza da fattore costitutivo dell’essere umano si riduce a realtà del tutto accessoria e la società assume le caratteristiche di una struttura esterna, con la quale diventa necessario fare i conti al solo scopo di evitare pesanti conflittualità.
Diversamente se vi fosse l’impegno di tutti ed in particolare della politica a tutelare la «dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone» (CDSC 164) e dunque il bene comune, fatti drammatici come quelli sopra accennati potrebbero essere evitati o quantomeno ridimensionati. Infatti l’impegno per il bene comune, che per Aristotele è lo scopo della politica e la sua dimensione qualificante, favorisce la ricerca di quell’«l’insieme di condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente» (Ibidem). Nella persona umana infatti, lo si voglia o no, individualità e relazionalità sono inseparabili, per cui: «Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro. Come l’agire morale del singolo si realizza nel compiere il bene, così l’agire sociale giunge a pienezza realizzando il bene comune. Il bene comune, infatti, può essere inteso come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale» (Ibidem).
In quanto bene di tutti e di ciascuno, allora, deve includere tutti, a cominciare dagli esclusi, dai più fragili e dai poveri; deve includere anche le future generazioni, specie in tema di risorse ambientali; non ammette l’eccessiva disparità di reddito sia tra i cittadini di una nazione che tra i singoli stati, ancora oggi così diffusa e da sempre causa principale di ogni tensione sociale e internazionale. È l’impegno per il bene comune che consente al cristiano di tendere a Dio come suo fine ultimo ed al singolo e all’azione politica in generale, di perseguire quella felicità che, da Aristotele in poi, continua ad essere lo scopo ultimo della vita umana e che, pur non coincidendo con il bene comune di una nazione o di un popolo, ne costituisce tuttavia il presupposto.
Leonardo Salutati
(dal Blog Accademia Alfonsiana)