(dal Blog dell’Accademia Alfonsiana)
Lo scorso 6 marzo la Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) – il cui motto è “Pro vita contra dolorem semper” – ha pubblicato una serie di Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili rispondenti agli scenari previsibili dell’attuale pandemia del Covid-19[i].
Il documento ha suscitato stupore e dibattito perché mette a tema la questione drammatica di come gestire una situazione di emergenza estrema nel momento in cui le necessità (persone bisognose di terapie intensive) giungessero a superare di gran lunga le risorse disponibili (posti letto attrezzati UTI). Dopo aver tentato tutte le soluzioni disponibili anche trasferendo pazienti critici in altre sedi meno congestionate, il documento prevede di allocare le risorse scarsissime in primis a favore di chi ha «più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei bene per il maggior numero di persone». A ciò si aggiungono raccomandazioni bioetiche molto articolate ed equilibrate – appropriatezza clinica; proporzionalità delle cure; giustizia distributiva; appropriata allocazione; ecc. – che, però, non possono essere analizzate nello spazio limitato di questo post.
Il Presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCEO), Filippo Anelli, è intervenuto interpretando il documento SIAARTI come un «grido di dolore» di chi si trova in prima linea, ribadendo che nessun medico dovrebbe essere costretto a scelte così tragiche, rimanendo guida autorevole dei medici italiani il Codice di Deontologia Medica che riconosce tutti i pazienti uguali e aventi diritto alle stesse cure senza discriminazioni. Una simile posizione è stata espressa anche dal presidente dei medici cattolici Filippo Maria Boscia, facendo emergere la preoccupazione per il rischio di ingiustizie, discriminazioni e abbandoni, soprattutto nei confronti dei malati più vulnerabili per età e pluralità di patologie.
Con il progresso dell’epidemia soprattutto in Lombardia, ciò che all’inizio del mese sembrava un’ipotesi remota e azzardarta, si presenta ora come una necessità estrema, dopo aver tentato in tutti i modi di ampliare i posti letto, di acquistare nuovi respiratori e di trasferire pazienti. Così alcuni bioeticisti si sono espressi in proposito alle regole del triage di estrema emergenza per valutare l’eticità di tali criteri.
Maurizio Mori riconosce in queste ultime prese di posizione «un auspicio che, scaldando i cuori, fa evaporare il senso di realtà; mentre le Raccomandazioni SIAARTI sono frutto di una lucida analisi di realtà». Queste ultime rappresenterebbero un auspicabile abbandono dell’etica ippocratica della sacralità della vita e dell’uguaglianza delle persone, in favore del criterio della qualità della vita in base al quale è corretto scegliere chi merita di essere curato/vivere e chi no. Il caso emergenziale viene utilizzato come caso paradigmatico per affermare una “nuova bio-etica” utilitarista, al punto di chiedere di eliminare dal codice deontologico la tutela della vita come compito prioritario della medicina e di aprire il dibattito sulla legittimità dell’eutanasia.
Anche qualche teologo ha espresso il suo prudente parere affermando che è eticamente ragionevole nel caso di estrema emergenza dare la precedenza a coloro che possono beneficiare di più e in numero maggiore, per i tempi più brevi di occupazione del posto in terapia intensiva. Si tratterebbe di un’applicazione particolare del principio di proporzionalità/ragionevolezza che impone di rendere disponibile la risorsa a chi ne riceva maggiori benefici e a più lungo termine. Non sarebbe un’ingiusta discriminazione che mette in discussione il valore della vita e l’uguaglianza dei malati, quanto che cerca di salvaguardare – quando non sia davvero più possibile curare tutti – la proporzione tra necessità e risorse disponibili, per curare nella maniera più soddisfacente e durevole il maggior numero di persone. Nell’emergenza l’etica, non potendo assicurare tutto il bene, si accontenta di un bene parziale come la scelta più logica e umana» senza nulla togliere «alla purezza e alla totalità del bene, del bene della vita».
A nostro avviso, le spiegazioni offerte non appaiono del tutto conclusive: quella di Mori perché apre la porta a gravi e pericolose derive eutanasiche ed eugenetiche in base al criterio della qualità della vita, che intacca esplicitamente il diritto fondamentale all’uguaglianza di accesso alle cure; l’altra perché, al di là delle intenzioni esplicite, ci sembra che potrebbe dar adito a qualche forma di “etica della situazione” dove le contingenze estreme giungerebbero a legittimare soluzioni di tipo consequenzialistico (il maggior bene, per il maggior numero, per il tempo più lungo possibile).
Crediamo che i criteri del triage delle catastrofi, della medicina di guerra e dell’attuale situazione pandemica si possano legittimare in prospettiva cattolica solo interpretandole come “l’unico bene possibile” nella situazione data. Non c’è altro bene nella circostanza drammatica dell’epidemia, se non dare le poche risorse a chi ne beneficerà con maggiori probabilità (ragionevolmente fondate: criteri medici, epidemiologici, di giustizia e non discriminazione). Fare diversamente – magari seguendo i criteri della maggiore gravità e dell’ordine di accesso, come abitualmente si fa nel pronto soccorso – corrisponderebbe sicuramente a un male, provocando un maggior numero di malati critici e di decessi. Non si tratta cioè di scegliere tra due beni (la vita di tutti o solo di alcuni privilegiati) definendo incerti criteri morali per soppesare beni inestimabili. Tale ipotesi, infatti, è illusoria, perché nei fatti si dà solo un’unica via che permette di non sprecare le limitatissime risorse disponibili, di assistere i malati e di salvare vite. Eticamente è doveroso scegliere l’unico bene possibile, ogni altra cosa sarebbe un male fisico e morale.
Solo in questo modo ci sembra che la sacralità della vita e l’uguaglianza delle persone non vengano compromesse, al netto della necessità di limitare queste evenienze alle situazioni eccezionali, di accompagnare le persone che subiscono l’impatto psicologico e relazionale di scelte inevitabili, e di aver cura dei morenti in modo umano e dignitoso, al meglio delle capacità umane disponibili.
Giovanni Del Missier
[i] Con modalità analoghe la questione del triage è stata posta anche in Spagna dove il Covid-19 sta mettendo a durissima prova, soprattutto nell’area metropolitana di Madrid, le UTI ormai prossime al limite della sopportazione.