Sfatato il mito della sovrappopolazione mondiale

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(dal Blog dell’Accademia Alfonsiana)

Secondo il Rapporto pubblicato dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), a novembre del 2022 la popolazione mondiale ha superato il livello di otto miliardi di persone, più che raddoppiata negli ultimi 50 anni, con la prospettiva di raggiungere i dieci miliardi entro il 2050.

Tale cifra se certifica i progressi dell’umanità nella medicina, nella scienza, nella salute, nell’agricoltura e nell’educazione, allo stesso tempo genera anche alcune preoccupazioni. Tra queste le due principali riguardano: 1) la paura per un mondo sovrappopolato e per il suo impatto sulla crisi climatica, in lotta per risorse sempre più scarse; 2) la preoccupazione per le conseguenze socio-economiche del calo delle nascite associata all’invecchiamento della popolazione, in particolare nei paesi ad alto reddito. L’Europa, ad esempio, vedrà la propria popolazione diminuire del 7% tra il 2030 e il 2050, risultato del calo del tasso di fecondità iniziato negli anni ’70, per cui si troverà con il problema di garantire crescita economica e sostenibilità del sistema di welfare con pochi giovani rispetto ai tanti anziani.

Indubbiamente, un legame tra crescita demografica e cambiamenti climatici esiste, perché l’aumento della popolazione e del PIL pro-capite è una delle cause dell’incremento dell’utilizzo di combustibili fossili. Tuttavia focalizzarsi sulla sovrappopolazione può far cadere nell’errore di ritenere responsabili del fenomeno i Paesi a basso reddito che presentano tassi di crescita demografica e di fecondità più elevati, senza considerare però, come sottolinea anche il Rapporto, che due terzi della popolazione vivono con meno di dieci dollari al giorno e non contribuiscono in maniera significativa alle emissioni di gas serra, ma soprattutto in quello di non attuare in modo adeguato le politiche necessarie per risolvere le crisi economiche, sociali e ambientali in corso.

Infatti, secondo il Rapporto (p. 14), le variazioni demografiche sono normali e il livello della popolazione non è di per sé positivo o negativo, piuttosto sarebbe necessario elaborare un “sistema resiliente” che risponda ai bisogni della popolazione al di là della dimensione, senza farsi condizionare dai miti intorno alle idee del “siamo troppi” o “siamo troppo pochi”.

Sennonché il mito del “siamo troppi” fu a suo tempo lanciato da due “ricerche” che hanno fatto epoca e gli USA contribuirono a diffonderlo nel mondo per motivi di sicurezza nazionale. Una delle due ricerche è The population bomb di Paul e Anne Ehrlich del 1968, libro “cult” dell’ambientalismo degli esordi, mai tradotto in italiano malgrado avesse venduto oltre due milioni di copie in inglese; l’altra è il Rapporto su I limiti dello sviluppo del 1972, commissionato al Massachusetts Institute of Technology di Boston dal Club di Roma, associazione non governativa, non-profit, di scienziati, economisti, uomini e donne d’affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di Stato dei cinque i continenti.

La posizione del Governo USA invece, fu decisa sulla base del Memorandum di uno Studio sulla Sicurezza Nazionale – 200 (NSSM-200), detto anche Rapporto Kissinger, in quanto all’epoca Henry Kissinger era il Segretario di Stato, promulgato come documento segreto dal Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, il più alto organismo decisionale di politica estera del Paese, il 10 dicembre 1974, subito dopo la prima grande conferenza sulla popolazione mondiale a Bucarest. Il documento, risultato della collaborazione tra CIA, United States Agency for International Developmento (USAID) e Dipartimenti di Stato, Difesa e Agricoltura, è stato reso pubblico quando fu desegretato e trasferito negli Archivi Nazionali degli Stati Uniti nel 1990, ad oggi accessibile sul sito dell’USAID.

Oggetto di tale Rapporto era uno studio sulle «Conseguenze della crescita della popolazione mondiale per la sicurezza degli Stati Uniti e interessi esteri». Esso espone in maniera esaustiva le motivazioni ed i metodi del “movimento per il controllo demografico” per orientare le nazioni in via di sviluppo nelle politiche demografiche. Il principale scopo degli sforzi per il controllo demografico promosso dagli Stati Uniti fu ed è mantenere l’accesso alle risorse minerarie dei Paesi sottosviluppati. Il Rapporto Kissinger afferma: «Qualunque cosa si possa fare per prevenire le interruzioni delle forniture e per sviluppare alternative interne, l’economia statunitense richiederà grandi e crescenti quantità di minerali dall’estero, soprattutto dai Paesi meno sviluppati. Laddove una diminuzione della pressione demografica attraverso la riduzione dei tassi di natalità può aumentare le prospettive di tale

stabilità, la politica demografica diventa rilevante per l’approvvigionamento delle risorse e per gli interessi economici degli Stati Uniti» (p. 43).

I metodi per il controllo demografico prevedono la legalizzazione dell’aborto, incentivi economici per i Paesi affinché essi aumentino il loro tasso di aborto, sterilizzazione e uso degli anticoncezionali, indottrinamento dei giovani, obbligo del controllo demografico e altre forme di coercizione, come negare gli aiuti in caso di calamità e gli aiuti alimentari a quei Paesi sottosviluppati che non abbiano elaborato programmi per il controllo demografico.

Esattamente l’opposto di quanto raccomandato pochi anni prima dal Concilio Vaticano II, in Gaudium et spes, dove si richiede che «ogni gruppo deve tener conto dei bisogni e delle legittime aspirazioni degli altri gruppi, anzi del bene comune dell’intera famiglia umana», perché «dall’interdipendenza sempre più stretta e piano piano estesa al mondo intero deriva che il bene comune […] oggi vieppiù diventa universale, investendo diritti e doveri che riguardano l’intero genere umano» (n. 26).

Con tutta probabilità l’unica e vera via per costruire un “sistema resiliente”.

Leonardo Salutati