«Noi ci affatichiamo e lottiamo perché speriamo nel Dio vivente» (1Tim 4,10)

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credit: pixabay.com

L’articolo di prof. R. Massaro, professore dell’Accademia Alfonsiana, pubblicato sul Blog dell’Accademia.

Continua con questo post la serie sulle parole-chiave del Giubileo 2025, pensata in forma dialogica: a un primo intervento di un docente dell’Accademia Alfonsiana segue un secondo contributo scritto da uno studente. Terza parola-chiave: Speranza – Post 1/2.

La tradizione giubilare contempla almeno due origini. La prima risale alle narrazioni veterotestamentarie e, in modo particolare, alle norme contenute nel libro del Levitico: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione della terra per tutti i suoi abitanti; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,10). Il giubileo è l’anno della liberazione, della speranza, per ogni ebreo; speranza non solo di poter tornare libero, ma anche di potersi riappropriare dei mezzi necessari per mantenere e tutelare la propria libertà. La seconda, invece, come ben sappiamo, risale agli ultimi giorni del 1299 quando, una folla di pellegrini, spinta da un moto popolare spontaneo e dalla diffusione della paura della fine del mondo, si era radunata a Roma chiedendo a Bonifacio VIII una forma di perdonanza simile a quella istituita qualche anno prima, nel 1294, da Celestino V. Così il pontefice, con la bolla Antiquorum habet fida relatio, concesse l’indulgenza plenaria a tutti coloro che avrebbero varcato le porte delle basiliche di San Pietro e San Paolo fuori le mura, dando loro la certezza della liberazione dalle pene legate ai peccati commessi e la speranza nella vita eterna.

Il legame del giubileo con la speranza, quindi, risale a molto tempo prima dell’indizione del giubileo ordinario del 2025, dedicato a questa virtù teologale da papa Francesco con la bolla Spes non confundit. Se, nel giubileo dell’era cristiana, l’accento viene posto sulla speranza nella liberazione “escatologica”, la tradizione giudaica, invece, lega la speranza a un tempo preciso – il cinquantesimo anno, per l’appunto – come tempo di liberazione da ogni oppressione e di ritorno all’uguaglianza originaria voluta da Dio.

Le due visioni, però, non si escludono. Come ci ricorda la Gaudium et spes, per i cristiani «l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo» (GS, n. 39). Questo significa che la speranza cristiana – che questo giubileo ci invita ad approfondire e a vivere – non ci distoglie, con la promessa della vita di lassù, dalle questioni della vita di quaggiù. Tutt’altro. Ci fa comprendere che si tratta della medesima vita e che sperare è qualcosa di molto concreto: adottare il punto di vista dell’eternità, piantare e far germogliare nell’hic et nunc i semi dell’eternità e di libertà che la fede nel Signore risorto ha seminato nel corso della storia.

È questa la ragione per cui il pontefice, nella Spes non confundit, elenca dei “segni di speranza” da porre in atto durante questo anno santo (nn. 7-15): riscoprire i segni dei tempi che il Signore ci offre; lavorare per la pace; trasmettere una visione positiva sulla vita; stare accanto a coloro che vivono in condizioni di disagio; prendersi cura dei migranti, dei giovani, degli anziani.

Ci sia consentito di aggiungere – al pur esaustivo elenco di Francesco – un ulteriore segno-annuncio di speranza. Speranza per la Chiesa tutta, in un tempo complesso, che lo stesso papa ha definito un «cambiamento d’epoca»: per i vescovi, i presbiteri, i religiosi e le religiose, spesso scoraggiati dal carico di lavoro e dalle difficoltà della vita pastorale, perché vengano liberati da quelle deleterie forme di superomismo sacrale; per i laici e le laiche che ancora fanno fatica – nonostante i numerosi e profetici tentativi del pontefice nelle varie assisi sinodali – ad avere voce e spazio nella Chiesa e, in particolare, per le donne, perché siano liberate dalle strette catene del patriarcato e la comunità dei discepoli e delle discepole di Cristo sia pronta a combattere ogni forma sistemica di discriminazione femminile dentro e fuori la Chiesa; per il dialogo ecumenico, perché una volta liberate tutte le confessioni cristiane dalla convinzione di possedere l’unica verità, abbia come finalità quella di esaudire la preghiera carica di speranza di Cristo «perché tutti siano uno» (Gv 17,21); per tutti noi credenti, perché solo portando l’annuncio di speranza e di liberazione Cristo possiamo toglierci di dosso quella triste irrilevanza sociale, cui siamo stati relegati per aver agito più da padroni che non da poveri pellegrini di speranza.