L’articolo di Dongiglio Luigi, studente dell’Accademia Alfonsiana, pubblicato sul Blog dell’Accademia Alfonsiana. Continua con questo post la serie sulle parole-chiave del Giubileo 2025, pensata in forma dialogica: a un primo intervento di un docente dell’Accademia Alfonsiana segue un secondo contributo scritto da uno studente. Terza parola-chiave: Speranza – Post 2/2.
La speranza non è più una virtù, ma un vizio antico che nessuno riesce mai a togliersi completamente. La speranza è una specie di difetto congenito che permane fino alla morte, diventando pericoloso quando si concretizza in una vita sopravvissuta nell’attesa passiva che qualcosa di nuovo accada sotto il sole, risultando invece salvifico quando si trasforma in capacità di resilienza e motore di cambiamento.
Nel complesso, questa è l’idea, presa da Giorgio Scerbanenco (1911-1969), giornalista e scrittore di origine ucraina, considerato il padre del noir italiano, che è alla base de Il vizio della speranza (2018), favola nera del regista napoletano Edoardo De Angelis, esempio di rifigurazione della speranza nel cinema contemporaneo[1].
Maria, la protagonista, sembra essere immune a questo vitium che rischia di fiaccare la volontà. Salvata dalle acque del Volturno all’età di sei anni, dove era stata gettata da uno sconosciuto come una bottiglia di plastica accartocciata dopo averle brutalmente squarciato il velo dell’innocenza, ora è una donna che non può avere figli, rotta dentro, che si occupa delle ragazze deturpate “per un’ora d’amore” lungo le sponde del fiume, sotto la gestione dell’avara madame zi’ Mari’. A volte succedono degli imprevisti, come gravidanze inattese, ma il problema è presto risolto: i neonati vengono venduti a coppie che desiderano disperatamente diventare genitori, o peggio ancora, i loro organi vengono espiantati e trafficati.
Maria non vive, sopravvive. Un filo tiene appesa la sua vita, lo stesso che collega tutti i naufraghi della storia[2]. Intrappolata lungo la costa che unisce Caserta e Napoli, attraversa il tempo senza sogni e senza desideri, un giorno dopo l’altro, fino a quando non accade qualcosa di inatteso, di miracoloso. Un bagliore di luce ricuce i suoi strappi. Si tocca delicatamente la pancia: è gonfia, ora è gravida di speranza. Che fare? Non vuole rinunciare alla vita che sta crescendo dentro di lei. È tutto in gioco, bisogna osare. Scappa. Zi’ Mari’ prova a dissuaderla: «La libertà è ‘na strunzata. Un campo vuoto, senza niente, è così bella la schiavitù con le sue regole, le punizioni, i premi»[3]. Sarà Carlo Pengue, l’uomo che da bambina l’ha tratta dalle acque, a ridarle ancora una volta la speranza di una vita nuova.
La speranza non è un vizio, ma rimane una virtù, e una virtù teologale. La fede, la carità e la speranza ci rivestono come gli abiti (habitus) propri della vita nuova in Cristo: «Rivestitevi della fede e della carità, avendo come elmo la speranza» (1Ts 5,8). Per un impegno etico a tutto campo occorre essere mossi dalla speranza più grande: «noi ci affatichiamo e lottiamo perché speriamo nel Dio vivente» (1Tm 4,10).
La storia immaginaria di Maria ci aiuta a evidenziare due aspetti reali della speranza: essa è «ostetrica del nuovo»[4] e «volano della libertà»[5]. Già il prof. Roberto Massaro ha sapientemente messo in luce nel post precedente il nesso tra l’esperienza giubilare, la virtù teologale della speranza e l’impegno cristiano per la liberazione integrale dell’uomo, quindi non aggiungiamo altro[6].
Vogliamo semplicemente evidenziare che ciò che colpisce di questa rappresentazione laica della speranza è che anche una persona come Maria, completamente immersa in una “struttura di peccato”, in un momento di lucidità, rianimata dalla speranza di una nuova vita e di una vita nuova, riesca ad orientare la propria libertà verso il bene, specialmente quando trova alleati lungo le vie del bene. È proprio vero che si spera insieme! Certo, il regista attribuisce tutto questo a un vizio, non a una virtù, e come ci ricorda Papa Francesco, «la virtù è un’altra cosa», essendo «un habitus della libertà»[7], «una disposizione abituale e ferma a fare il bene» (CCC, n. 1879). E ancor di più, nella prospettiva cattolica la speranza è una virtù teologale, cioè proviene da Dio (a Deo) e indirizza a Dio (ad Deum), che è l’unico e sommo Bene da cui viene ogni altro bene (cf. Mc 10,18). Tuttavia, ciò non impedisce che, per noi, storie come questa, che talvolta attraversano lo schermo e trovano una corrispondenza nella realtà[8], siano, a loro modo, un segno di speranza e, in particolare, un invito a non smettere di cercare, anche oggi, il modo per «rendere ragione della speranza che è in noi» (1Pt 3,15). Infatti, non dimentichiamo che «noi ci affatichiamo e lottiamo perché speriamo nel Dio vivente» (1Tm 4,10).
La quarta parola chiave:
[1] L’idea di indagare il modo in cui il cinema consente di rifigurare la speranza muove da qui: D.E. Viganò – G. Scarafile, L’adesso del domani. Rifigurazioni della speranza nel cinema moderno e contemporaneo, Effatà, Cantalupa (TO) 2007.
[2] Cf. S. Bongiovanni – S. Tanzarella (edd.), Con tutti i naufraghi della storia. La teologia dopo “Veritatis Gaudium” nel Contesto del Mediterraneo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2019.
[3] E. De Angelis, Il vizio della speranza (Strade blu), Mondadori, Milano 2018, 143.
[4] B.-C. Han, Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione (Stile Libero Extra), Einaudi, Torino 2025, 36.
[5] Cf. M. Cozzoli, Etica teologale. Fede, Carità, Speranza, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 386.
[6] Suggeriamo soltanto la lettura di: J. Alfaro, Speranza cristiana e liberazione dell’uomo, (Biblioteca di Teologia Contemporanea/10), Queriniana, Brescia 19853.
[7] Francesco, Vizi e virtù. La lotta spirituale, Paoline, Milano 2024, 93.
[8] Cf. Diocesi di Aversa Caritas, TrattaMi. Percorso di accompagnamento e sensibilizzazione della tratta (Osservatorio Povertà e Risorse/Dossier 2021), Tipografia Bianco, Aversa 2021. Risorsa online: https://caritasaversa.it/osservatorio/