(dal Blog dell’Accademia Alfonsiana)
Ha avuto scarsa eco sulla stampa, forse perché in controtendenza, la sentenza della Corte Costituzionale italiana del 23 ottobre 2019 che riguardava le storie di due coppie di donne omosessuali, una di Pordenone e una di Bolzano [link]. Ci soffermiamo su questa seconda situazione.
Le due donne si erano sposate in Danimarca nel 2014 e l’atto era stato trascritto in Italia nel registro delle unioni civili. Una di esse aveva cercato di avere un figlio in Danimarca attraverso la fecondazione artificiale, ma la procedura aveva dato luogo a gravi complicanze esitate nell’asportazione della tuba uterina destra e nella occlusione di quella sinistra. L’altra donna soffriva di una grave aritmia per cui le era stata sconsigliata una gravidanza. Esse, allora, avevano chiesto all’ASL di Bolzano di concepire un embrione con gli ovociti della partner cardiopatica e seme di donatore e di far portare avanti la gestazione dall’altra, quella con lesioni delle tube. La prima sarebbe stata la madre genetica e l’altra la madre gestazionale, così che il bimbo avrebbe avuto due madri, anche se diversamente madri. L’Azienda sanitaria, però, aveva negato l’accesso alla fecondazione artificiale in quanto proibito dalla legge n. 40/2004.
Il dubbio presentato dal Tribunale di Bolzano alla Corte riguardava, appunto, la legittimità della norma che esclude le coppie omosessuali dalla fecondazione artificiale. Dal momento, infatti, che entrambe le donne presentano situazioni patologiche influenti sulla loro capacità di generare, si configurerebbe una disparità di trattamento rispetto alle coppie eterosessuali che abbiano difetti della sfera generativa. Perché una coppia di persone omosessuali non può accedere ai mezzi di aiuto alla generazione? La infecondità biologica di una coppia omosessuale non è forse assimilabile alla sterilità di una coppia eterosessuale? Il desiderio di maternità di una donna omosessuale è meno autentico di quello di una donna eterosessuale?
La legge 40, pur non essendo una traduzione in legge della morale cattolica, si muove intorno a due principi ideali che possiamo condividere: la tutela della vita del concepito e il rapporto fra una relazione eterosessuale stabile e la trasmissione della vita. A partire da questi principi, la Corte ha ribadito la legittimità della esclusione delle coppie omosessuali dalla fecondazione artificiale.
Secondo la Corte, la fecondazione artificiale non costituisce un modo alternativo di procreare, come se una coppia potesse decidere in totale autonomia se generare attraverso il concepimento naturale oppure attraverso le tecnologie procreative. La fecondazione artificiale è da considerarsi in senso lato una terapia della sterilità e – argomenta la Corte – «per la coppia eterosessuale la mancanza di fecondità è una forma di patologia, mentre per la coppia gay è la fisiologia». Le regole e le limitazioni previste dalla legge – continua la Corte – hanno «il trasparente intento di garantire che il nucleo [familiare scaturente dalle tecniche di fecondazione artificiale] riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre» ed è preoccupazione del Legislatore «garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato».
La Corte non ha voluto escludere a priori la «capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali», ma ha riaffermato che una famiglia composta da genitori di sesso diverso rappresenta «il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato» ed è, dunque, ragionevole garantire a chi
ancora non esiste, ma verrà concepito in provetta, il diritto a «quelle che appaiono, in astratto, come le migliori condizioni di partenza».
Al di là delle peculiarità della prospettiva giuridica propria della Corte e del suo linguaggio tendenzialmente fisicista, come teologo cattolico mi sento di poter convenire con l’idea di fondo implicita nella sentenza che, cioè, pur riconoscendo la dignità e i diritti delle persone coinvolte, l’unione omosessuale rappresenta una relazione interpersonale di qualità diversa rispetto all’unione coniugale e questo si riflette in modo particolare nella sua strutturale incapacità di apertura alla vita.
Qui si innesta uno dei nodi dell’attuale dibattito intraecclesiale sulla condizione omosessuale che potrebbe essere sintetizzato in una domanda: restando fedeli all’ideale matrimoniale cristiano, si aprono spazi per rivedere, del tutto o in parte, la posizione della morale cattolica espressa ultimamente e in un modo piuttosto perentorio da Amoris laetitia quando, al n. 251, afferma che «non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia»?
p. Maurizio P. Faggioni, OFM