Quando l’economia diventa profezia

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(dal Blog dell’Accademia Alfonsiana)

In questi giorni difficili di pandemia, di crisi economica, di radicali cambiamenti del nostro modo di vivere e lavorare, di dati allarmanti sulla recessione globale (Standard&Poor’s, Morgan Stanley), potrebbe essere grandemente utile rileggere Keynes. Non perché non ci siano autorevoli voci contemporanee che da tempo insistono sulla necessità di legare sviluppo economico e migliori equilibri sociali (Sen, Nussbaum, Stiglitz, Krugman, Fitoussi, Judt, Collier), ma per andare alla radice del miglior pensiero economico che ha guidato una delle più brillanti ed equilibrate stagioni di crescita economica e sociale, nel Novecento.

Un suo saggio del 1926, La fine del Laissez Faire, indicava con straordinaria chiarezza la strada che avrebbe portato al Welfare State, alla forte ondata di investimenti pubblici nell’economia europea (con i fondi Usa del Piano Marshall) per fare ripartire l’Europa e dunque anche gli Usa creditori dopo i disastri della Seconda Guerra Mondiale, le strategie macro-economiche verso il Mercato Comune Europeo e i provvedimenti per migliorare salari, diritti dei lavoratori, sicurezza, consumi, qualità della vita e del lavoro. Un pensiero liberale e democratico, una economia mista, una costante ricerca di equilibrio tra intervento pubblico nell’economia, mercato, dinamismo dell’intraprendenza privata. Keynes ragiona in modo realistico e scientifico sulle varie forme possibili di equilibrio tra pubblico e privato.

Ancora prima, all’inizio del giugno 1919, in totale disaccordo con il modo in cui si andavano conducendo le trattative di pace dopo la prima guerra mondiale alle quali stava partecipando come rappresentante del Tesoro britannico, comunicò all’allora Primo Ministro britannico Lloyd George, che «intendeva lasciare la scena di un in-cubo» e con altrettanta straordinaria chiarezza e lungimiranza compose il pamphlet, Le conseguenze economiche della pace, dove denunciava la durezza e l’insensatezza della “pace cartaginese” imposta alla Germania sconfitta.

Per Keynes il vero centro del problema relativo ai trattati di pace era che: «la guerra è terminata con tutti che devono a tutti enormi somme di denaro. La Germania deve un’enormità agli alleati; gli Alleati devono un’enormità alla Gran Bretagna; la Gran Bretagna deve un’enormità agli Stati uniti (…). L’intera situazione è artificiosa, fuorviante e vessatoria al massimo grado (…). Un falò generale è una necessità così impellente, che se non vi provvediamo in modo ordinato e benigno, senza far grave ingiustizia a nessuno, il falò quando infine avrà luogo diventerà un incendio che può distruggere molte altre cose» (p. 220). Dunque: revisione del Trattato di Versailles e condono generale di debiti e crediti… ma non si fece né l’una né l’altra cosa.

Diversamente, preconizzava Keynes: «Se miriamo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non si farà attendere. Niente allora potrà ritardare a lungo quella finale guerra civile tra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione, rispetto alla quale gli orrori della passata guerra tedesca svaniranno nel nulla» (p. 212). Quando Keynes scriveva il suo libro, Hitler era solo uno degli innumerevoli disperati che vagabondavano per le vie di Monaco. Se si fosse dato retta all’economista inglese e ai molti che condividevano le sue idee, sarebbe probabilmente rimasto tale…

Oggi tutti dicono che siamo in guerra (contro un virus) e che la situazione economica è pari a quella di un “tempo di guerra”, tanto che: «Di fronte a circostanze non previste un cambio di mentalità è necessario (…). Lo shock che ci troviamo ad affrontare non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di chi la soffre. (…). La memoria delle sofferenze degli europei negli anni 1920 è un ammonimento» (M. Draghi).

Tra l’altro anche oggi, come al tempo del trattato di pace di Versailles, tutti devono a tutti enormi somme di denaro. Solo per citarne alcuni: i PIIGS, i cinque paesi dell’Unione europea ritenuti più deboli economicamente (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) devono molto ai paesi più ricchi del Nord Europa; la Germania con la sola Deutsche Bank è la più grande fonte potenziale al mondo di shock esterni per il sistema finanziario con i suoi derivati “tossici” (48.266 miliardi di Euro, 16 volte il prodotto interno lordo tedesco); gli Stati Uniti che per anni hanno finanziato in deficit una spesa statale fuori misura, hanno un debito in cifra assoluta non paragonabile ad alcun altro Paese del mondo; il Giappone è il primo paese al mondo per rapporto deficit/PIL al 237%.

Si sta entrando in una recessione che probabilmente sarà certamente lunga e pesante e proprio in tali situazioni un altro grande economista, tra i migliori interpreti di Keynes, invitava a: «riscoprire l’economia degli affetti, non delle regole», di ciò che tiene insieme le persone e determina lo sviluppo, la partecipazione, la condivisione (F. Caffè), in altri termini lo sviluppo sostenibile (Laudato si’) e solidale (Populorum progressio).

L’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, scritta nel 2009 al tempo di un’altra crisi, affermava che: «La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità» (n. 21). Pertanto è necessario e urgente «rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e barriere politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza» (Laudato si’ n. 52). Inoltre bisogna non temere, come molti oggi temono, che se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e principi morali, che il cattolicesimo costantemente richiama attraverso la sua Dottrina sociale e che gli “uomini di buona volontà”, come abbiamo visto, riconoscono come necessari, «venga impedita l’autonomia degli uomini, delle società, delle scienze (…). La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce» (Gaudium et spes 36).

Leonardo Salutati