Sfumature? Due statue di Pietro Donders

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Dal 12 marzo scorso, oltre al grande monumento nel Peerke Donders Park, ci sono due statue del Beato Pietro Donders a Tilburg: la statua in bronzo, svelata il 26 agosto 1926 nel Wilhelminapark, e una statua più piccola in calcestruzzo del 1930 nel Peerke Donders Park, originariamente collocata in posizione accessibile nel giardino di un orfanotrofio delle Suore di Schijndel e poi nel giardino della loro casa madre.

La prima statua fu eretta su sollecitazione dell’associazione distrettuale “Noorderbelang” e fu finanziata dai cittadini di Tilburg e il suo mantenimento fu trasferito al comune che se ne sarebbe presa cura “perennemente”. A quell’epoca i cattolici erano orgogliosi del loro lavoro missionario, si emancipavano nei Paesi Bassi protestanti. La statua, alta cinque metri, fu scoperta in un luogo ben visibile, un ampio prato recintato, ai margini del Wilhelminapark in un quartiere, dove vivevano molti operai tessili, situato tra la chiesa nella quale Pietro Donders celebrò la sua prima messa e la sua casa natale. Così la città dimostrava di essere orgogliosa del missionario Pietro Donders per il quale allora era già stato avviato un processo di canonizzazione.

Oggi la recinzione è scomparsa, una strada trafficata passa proprio accanto alla statua e la vegetazione cresciuta intorno la rende meno visibile. Tuttavia, sin dal 2018 si odono alcune voci grosse che chiedono che la statua sia rimossa, spostata o modificata.

Come argomenti vengono menzionati:

Già negli anni ’90 non tutti i passanti riconoscevano più la persona ritratta.

La statua è un simbolo di missione, e la missione è riprovevole, perché suggerisce che gli evangelizzati, in questo caso gli africani in Suriname, non avessero una religione o al massimo avessero una fede inferiore al cristianesimo. Si identifica la missione con il colonialismo e la schiavitù.

Altri non hanno visto che l’uomo inginocchiato è un lebbroso, ma, “perché è un afroamericano”, vedono in lui solo uno persona fatta schiava. Oltre a ciò, il fatto che questo uomo non ha un nome sottolinea la disuguaglianza tra le persone raffigurate.

Inoltre, qualcuno riduce la statua da “monumento” alla categoria generale di “opera d’arte”, e la conservazione di nuove opere d’arte nello spazio pubblico non sarebbe più garantita a tempo indeterminato, ma solo per dieci – vent’anni. Questi ultimi due argomenti, tuttavia, mettono i fautori della collocazione di un monumento in memoria della schiavitù, in sostituzione o meno della statua di Pietro Donders, a confronto con un problema: si dovrebbero dare nomi alle figure umane raffigurate? L’opera d’arte può essere esposta lì solo per dieci anni? E poi sarà riconsiderata? O diventerà un monumento destinato a serbare il ricordo per lungo tempo?

Il trasferimento in un ambiente ecclesiastico o museale, dove le spiegazioni sarebbero più facilmente accessibili che negli spazi pubblici dove sarebbero lette da pochi e non sarebbero mai proporzionate alle dimensioni della statua, è per parecchie persone una buona opzione.

I surinamesi coinvolti nella discussione, proprio come i fautori espliciti della conservazione della statua al suo posto attuale, ora non erigerebbero più una tale opera, perché la storia di Pietro Donders può essere raccontata più adeguatamente in un modo diverso, ma si dissociano dall’appello a rimuovere la statua dopo 95 anni. Ora spetta al comune di Tilburg fare una scelta: seguire le voci grosse che non vogliono vedere alcun contesto e non vogliono più sentire le parole pronunciate all’inaugurazione “La debole mano giace dolcemente sulla testa fasciata del soffrente”, oppure fornire il contesto in loco e dare così a tutti l’opportunità di conoscere la storia di Pietro Donders e della popolazione di Tilburg nel periodo interbellico, in un momento di forte compartimentalizzazione religiosa? Sarebbe la seconda volta in un anno che Pietro Donders scompare dalla vita pubblica a Tilburg: l’anno scorso il Wereldpodium decise di non intitolare più a Pietro Donders le sue conferenze tenute dal 2009, perché vuole spostare il tema da “misericordia” a “nuove prospettive sul presente e sul passato” e perché “c’è una discussione in atto su come la gente oggi la pensi sui benefattori occidentali nel presente e nel passato” – apparentemente ignorando il fatto che Pietro Donders fu descritto dai surinamesi stessi come “la prima persona bianca che non prendeva, ma dava” e che anche la Chiesa oggi ha una visione diversa sulla missione.

Mentre la Fondazione Petrus Donders che gestisce il Peerke Donders Park, ha già deciso di organizzare d’ora in poi le Conferenze Peerke Donders, nelle quali ci si concentrerà sulle opere di misericordia, e mentre la semplice statua di calcestruzzo, offerta alla stessa Fondazione per motivi di conservazione, è già stata collocata nel Peerke Donders Park, il futuro del discusso monumento in bronzo è ancora incerto.

Sì, la statua è, certamente in assenza di conoscenze sul suo contesto, suscettibile di malintesi, e la discussione in corso spinge a riflettere su “missione”, su come trattare con sentimenti e rappresentazioni, ma è anche valido che, come ha scritto un surinamese quando ha sentito della discussione: “È un peccato, fare tanti storie per il passato della schiavitù, il colonialismo, le contraddizioni razziste, ecc. Questi sono fatti storici che non possono essere cancellati. L’energia sarebbe meglio utilizzata per rendere e mantenere il mondo più vivibile per i numerosi gruppi di persone oppresse, a partire dal proprio ambito di vita”. Se lo facciamo seguendo l’esempio che ci dà il Beato Pietro Donders, ci saranno sempre meno persone che non lo riconosceranno. E forse non sarebbe proprio necessaria nessuna statua su un piedistallo per fare vedere al “mondo” perché noi speriamo 

che la beatificazione di Pietro Donders, oggi 39 anni fa, 

non sia la fase finale del processo della sua canonizzazione.

C. Peters, vice-postulatore Causae Petri Donders C.Ss.R.