Curare i no vax?

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(dal Blog dell’Accademia Alfonsiana)

In tempo di Covid-19, in coincidenza con le ondate ricorrenti, si ripropone il dramma della scarsezza di mezzi terapeutici rispetto alla domanda e la necessità di selezione i pazienti da avviare alle terapie disponibili. In Italia, nonostante l’intensa campagna di vaccinazione, resiste uno zoccolo duro di no vax. Si sta verificando che durante le ondate pandemiche i no vax contraggono il Covid-19 in forme molto più gravi dei vaccinati così che, in quest’ultimo mese, le terapie intensive si sono nuovamente riempite di pazienti gravi per Covid-19, il 70-80% dei quali sono no vax. L’occupazione anomala delle terapie intensive impedisce di eseguire interventi delicati già programmati che esigono un postoperatorio in terapia intensiva, chiede di impiegare un surplus di personale medico a scapito di altri settori della medicina, soprattutto preventiva, e assorbe notevoli risorse pubbliche. Davanti a questa situazione, la prima reazione viscerale potrebbe essere quella di negare ai no vax le terapie intensive: potevano vaccinarsi, sapevano i rischi della mancata vaccinazione ed hanno deciso di non farlo, ma adesso devono subire le conseguenze implicite nel loro comportamento scriteriato e antisociale liberamente scelto. Questa logica, non in forma così cruda, ovviamente, sta nel cuore di una recente lettera della Consulta di Bioetica[1] le cui riflessioni sono condensate in questa affermazione: «Chi rifiuta volontariamente il vaccino anti Covid sa che così facendo si espone a rischi maggiori di cui deve assumersi la responsabilità. È il rispetto per la scelta che impone di dare la precedenza a chi si trova a richiedere il soccorso pur avendo evitato di porsi nelle situazioni di maggior rischio».

È chiara la logica discriminatoria insita in questa posizione che – si sottolinea nel testo – non vuole essere quella specifica della Consulta. In base a questa logica il diritto alle cure non è parimenti goduto da ogni essere umano per il solo fatto di essere una persona, ma varia a seconda di valutazioni riguardanti le motivazioni e le circostanze che hanno causato il suo bisogno di cure. Così, per esempio, in condizioni di ustioni di pari gravità, prima si daranno le cure ad un vigile del fuoco che si è ustionato nel compimento di un lavoro di alta utilità sociale, come spegnere un incendio in un caseggiato, e poi si daranno le cure ad un giovanotto che, avendo acquistato fuochi artificiali illegali, ha subito estese ustioni in seguito ad uno scoppio accidentale.

Non è certo nuovo questo modo di pensare discriminatorio che è inevitabile quando i diritti, come il diritto alle cure, non vengono radicati in una qualità essenziale e comune, quella di essere una persona, ma sono subordinati ad una qualche qualità accidentale, come il possesso di un minimo cognitivo o la maggiore o minore utilità sociale. Nel caso del Covid-19 si vorrebbe introdurre, fra i criteri di selezione dei malati, la loro qualità morale: chi ha problemi di salute causati da un comportamento rischioso consapevolmente scelto, non ha diritto a terapie più sofisticate o può accedervi solo dopo che si sono soddisfatti i bisogni sanitari di chi ha tenuto un comportamento socialmente virtuoso ed ha fatto tutto il possibile per evitare di ammalarsi. Questo criterio etico di accesso alle cure offerte da un Servizio Sanitario Nazionale non è nuovo: ogni tanto qualcuno afferma che non hanno diritto alle cure gratuite i malati di AIDS che hanno contratto la malattia usando siringhe infette per drogarsi o i malati di cancro del polmone che hanno fumato sigarette di tabacco per anni.

Nella prospettiva personalista, è indiscutibile che un diritto umano – come il diritto di accedere ai mezzi terapeutici – non dipende dalle qualità morali di un soggetto, ma dalla sua qualità ontologica. Una persona resta una persona e non decade dalla sua dignità di persona neppure per delitti gravissimi. Neanche il peggiore dei delinquenti perde il suo diritto alla vita: su questo punto, dopo secolari discussioni, convergono vasti strati dell’opinione pubblica occidentale e scuole filosofiche di diversa estrazione. La posizione contraria, riflessa nella terribile realtà delle pena capitale, è stata esplicitamente rifiutata dal pensiero cattolico e dal Magistero. «Neppure l’omicida perde la sua dignità – affermava lapidario Giovanni Paolo II in riferimento a Caino – e Dio stesso se ne fa garante» (EV 9).

In situazioni di scarsezza relativa di mezzi terapeutici, come accade nei disastri o nelle pandemie, bisogna razionare i mezzi disponibili e ricorrere a una selezione dei pazienti sulla base di criteri opportuni. La buona medicina cerca di sviluppare criteri oggettivi, basati sulle condizioni cliniche dei pazienti e non su considerazioni extracliniche più o meno arbitrarie. Il criterio generale secondo noi più ragionevole è quello – uso le parole stesse della Consulta – «di dare la priorità a chi ha più probabilità di farcela, privilegiando l’accesso alle terapie intensive a chi ha maggiori possibilità di avvalersene». Ovviamente questo criterio generale ha bisogno di essere precisato tenendo conto della varietà dei casi e deve essere compreso nell’orizzonte della giustizia distributiva, declinata, però, in una prospettiva personalista e non utilitarista[2] (cf. su questo Blog).

È possibile che uno Stato decida di offrire le cure gratuite, in ultima analisi pagate dai contribuenti, a chi subisce un danno mentre compie un lavoro di pubblica utilità, e chieda, invece, di pagare le cure a chi subisce un danno perché si diletta a fare paracadutismo o a scalare le montagne. Nulla vieta che lo Stato stabilisca che si organizzi una costosa operazione di salvataggio per un gruppo di volontari umanitari rapiti da terroristi in un paese in guerra e abbandoni invece al loro destino un gruppo di turisti che si sono avventurati incautamente in un territorio di guerra. In base alla nostra idea di bene comune e delle finalità dell’organizzazione statale, leggi di questo tenore sarebbero leggi inique.

Due osservazioni finali.

  1. Strano che accesi fautori dell’autonomia del soggetto e dell’impossibilità di affermare assoluti morali, poi propongano di punire con l’esclusione dalle cure appropriate coloro che amano il rischio degli sport estremi o quanti decidono, sulla base di informazioni ricevute più o meno attendibili, di non vaccinarsi. Esistono, dunque, anche per loro – come per noi – decisioni autonome buone o meno buone ed esistono decisioni così discutibili da privare i loro autori dei mezzi necessari per la sopravvivenza e, quindi, condannarli a morte. La Consulta argomenta che l’esito estremo di una scelta rischiosa è da attribuirsi prima di tutto a colui che ha accettato il rischio e, quindi, è un modo per rispettare quella scelta che implicava l’accettazione, appunto, di un rischio. A parte il fatto che anche un pompiere in servizio o un medico in un reparto di malattie infettive accettano responsabilmente il rischio di subire danni gravi, il fatto di praticare sport rischiosi, per esempio, non comporta la volontà di subire danni: chi pratica sport estremi sa che può accadere un evento infausto, ma non lo vuole. Rispettare una scelta significa rispettare l’oggetto di una scelta, ma farsi del male o ammalarsi non è oggetto della scelta di chi pratica sport estremi o di chi usa mortaretti illegali o di chi rifiuta il vaccino.
  2. Strano che ci siano teologi cattolici – come abbiamo letto – che accolgono e difendono le posizioni della Consulta, magari invocando il principio del favor vitae. Nell’espressione favor vitae il termine vita non è accompagnato da alcun aggettivo che la qualifichi perché si riferisce alla vita, ad ogni vita umana, senza discriminazioni, indipendentemente dalle condizioni, dalle scelte e persino dalle persuasioni etiche di ciascuno.

p. Maurizio P. Faggioni, OFM


[1] Consulta di Bioetica, «Covid. Vaccinati e no vax. A chi dare priorità in caso di emergenza?» in Quotidianosanità.it, 25 gennaio 2022, https://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=101507. Specifico, per chi non fosse addentro alle cose di bioetica, che questa Consulta di bioetica è privata e di orientamento secolare, da non confondersi con il Comitato Nazionale per la Bioetica.

[2] Rimandiamo a due nostri interventi: M. P. Faggioni, «Decidere in tempo di crisi. Etica del triage», in Studia Moralia 58 (2020) 275-296; M. P. Faggioni, F. J. González Melado, M. L. Di Pietro, «National health system cuts and triage decisions during the COVID-19 pandemic in Italy and Spain: ethical implications», in Journal of Medical Ethics 47 (2021) 300-307 (https://jme.bmj.com/content/medethics/47/5/300.full.pdf).