«Il nostro mondo è spesso chiuso all’orizzonte divino e alla speranza che porta l’incontro con Dio». Con queste parole Benedetto XVI descriveva la realtà in cui viviamo. Contestualmente il compianto papa Ratzinger aveva fatto notare che per questo motivo «oggi i cristiani sono chiamati a essere testimoni di preghiera». Continuando, egli ha condiviso con la Chiesa contemporanea la convinzione che «nell’amicizia profonda con Gesù e vivendo in Lui e con Lui la relazione filiale con il Padre, attraverso la nostra preghiera fedele e costante, possiamo aprire finestre verso il Cielo di Dio. Anzi, nel percorrere la via della preghiera […] possiamo aiutare altri a percorrerla»[i].
La quaresima, che stiamo vivendo, era considerata dalla Chiesa primitiva il tempo privilegiato per la preparazione dei catecumeni ai sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia che venivano celebrati durante la Veglia pasquale. Il periodo quaresimale veniva considerato come il tempo del divenire cristiani che non si attuava in un solo momento, ma esigeva un lungo percorso di conversione e di rigenerazione. Durante la quaresima, la Chiesa – facendo eco al Vangelo – propone alcuni impegni specifici che accompagnano i fedeli in questo itinerario di rinnovamento interiore: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. La quaresima, come ci ricorda papa Francesco, è un «viaggio di ritorno all’essenziale. La preghiera ci riannoda a Dio; la carità al prossimo; il digiuno a noi stessi. Dio, i fratelli, la mia vita. […] La quaresima ci invita a guardare: verso l’Alto, con la preghiera, che libera da una vita orizzontale, piatta, dove si trova tempo per l’io ma si dimentica Dio. E poi verso l’altro, con la carità, che libera dalla vanità dell’avere, dal pensare che le cose vanno bene se vanno bene a me. Infine, ci invita a guardarci dentro, col digiuno, che libera dagli attaccamenti alle cose, dalla mondanità che anestetizza il cuore»[ii].
In questa riflessione vorrei ora soffermarmi sul secondo pilastro della quaresima, quello della preghiera. Essa rivela lo stato di salute della nostra figliolanza e ci «aiuta a tendere al massimo dell’amore»[iii]. E lo farò attingendo all’insegnamento di Gesù riportato in Mt 6,1-18. Rinaldo Fabris, in riferimento a questo brano, parla «di un piccolo catechismo di stile parentetico sapienziale messo insieme da Matteo per illustrare la vera religiosità dei discepoli», «un nuovo modo di vivere la religione»[iv].
In Mt 6,1-18 ben otto volte Gesù invoca il nome del «Padre» e ripete per tre volte che Dio Padre non ci perde mai di vista[v]. Gesù ci assicura che il Padre sa sempre di cosa abbiamo bisogno (Mt 6,8.32) e che “quando il gioco si fa duro” lo Spirito del Padre parlerà attraverso di noi prima che possiamo dire qualcosa e che non ci cadrà neppure un capello dal capo (Mt 10,20.29). Gesù, come nostro fratello, ci insegna a pregare il Padre. Gesù ci porta la Buona Novella appunto per farci incontrare il Padre. Lo fa a modo di un “Fratello maggiore” che si siede accanto al fratello più piccolo – così Gesù ci parla del suo e nostro Abba. Ci insegna il legame più bello: figlio-Padre, ci insegna a parlare con Lui, ad affidarci a Lui, a portargli gioia, a portargli gloria. Ci insegna anche a superarci sempre per valorizzare la Sua volontà più della nostra, perché Lui sa meglio di noi di cosa abbiamo bisogno e vuole il nostro bene.
In Mt 6,1-18 Gesù ci fa incontrare con lo sguardo stesso del Padre: esso ci attrae, ci dà un senso di presenza e di cura amorevole, ci aiuta a vedere il nostro vero valore. Gesù ci fa vedere gli occhi buoni del Padre. In essi possiamo trovare il nostro valore più profondo che non dipende dall’opinione umana, che nessun giudizio ingiusto può toglierci e che nemmeno il più grande apprezzamento umano può eguagliare.
Come detto sopra, in Mt 6,1-18, Gesù fa riferimento alle tre azioni tradizionali che, oltre ai 613 comandamenti (Mitzvot) individuati nella Torah, rappresentano l’osservanza di una piena «giustizia». Gesù ci mostra come esse possano alimentarci in un rapporto di figliolanza con il Padre. Si tratta dell’elemosina, della preghiera e del digiuno. Pratiche per loro natura non imponenti, nascoste, non finalizzate alla vanagloria, ma che ci aiutano a cercare lo sguardo del Padre che vede nel segreto.
Come un ritornello, Gesù ripete tre volte: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (6,4.6.18). Egli ci convince che siamo sempre davanti agli occhi del Padre. Dio Padre vede ciò che è più nascosto, non solo ciò che è visibile agli occhi umani. Ma Gesù dice anche che lo sguardo di Dio non «segue e insegue», non guarda le pietre d’inciampo, non controlla, ma guarda con amore. Dio Padre non trascura il minimo bene, vede ciò che è più nascosto agli occhi umani, non trascura nulla.
Gesù consiglia: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa» (v. 5). La forma verbale qui usata: «quando pregate (proseuchesthe)» dà l’immediata sensazione che qualcosa sia fatto in modo naturale, semplicemente come mangiare il pane ogni giorno. La preghiera infatti era una pratica comune e frequente. Era vissuta in pubblico e in privato, a casa e nella sinagoga. Per un israelita, un uomo di fede era sinonimo di un uomo di preghiera. Per sua stessa natura, la preghiera consisteva nel rivolgere tutto sé stesso verso Dio.
A volte, però, la preghiera – sottolinea Gesù – invece di diventare un incontro intimo con Dio, può trasformarsi in «uno spettacolo teatrale». C’è il pericolo di snaturarla quando, invece di cercare Dio nella preghiera, comincio a cercare me stesso, invece del Suo sguardo, cerco lo sguardo degli altri e mi concentro su me stesso. Allora mi comporto da ipocrita, perché la uso per i miei fini: per mostrare il mio volto, per cercare un riconoscimento. Avviene un paradossale rovesciamento dell’ordine: la preghiera, che doveva diventare uno spazio per incontrare Dio, per costruire una relazione intima con Lui come centro della mia vita, si trasforma in uno spettacolo pubblico, in un teatro in cui si cerca il riconoscimento per sé stessi. La preghiera fatta così si ferma all’esterno. Non porta all’interno. Distorce la relazione con Dio. Invece di contemplare il Suo volto, contempla la propria immagine. Invece di glorificare il Padre che è nei cieli, cade nell’autoglorificazione.
Oggi chiameremmo questo atteggiamento come “narcisistico”. Gesù evoca l’immagine di un ipocrita che deve aver «elettrizzato» i suoi ascoltatori. Come lo spiega R. Fabris, gli ipocriti sono i “professionisti” della preghiera, che per essere ammirati dagli uomini nelle loro prestazioni religiose, si mettono in mostra nella preghiera pubblica. A questo esibizionismo, che tende a strumentalizzare il rapporto con Dio, il Vangelo contrappone la preghiera fatta nel luogo più recondito della casa. Perché quello che dà valore religioso e salvifico alla preghiera non è il luogo o il modo esterno di praticarla, ma la relazione profonda e genuina con il Padre[vi].
Continuando la sua istruzione sulla preghiera che «aiuta vivere in pienezza», Gesù dice in maniera personale, quasi intima: «Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera (tameion), chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (v. 6). «Entra nella tua camera!». Il termine greco qui usato «tameion» può significare la stanza delle proviste, o una dispensa, oppure la stanza più interna della casa, nascosta e soprattutto non visibile dalla strada[vii]. Un’immagine eloquente, di un luogo nascosto di preghiera, l’ultimo degli ultimi luoghi della casa, dove si condividono i propri segreti con Dio. Gesù intende dire: lo sguardo buono del Padre è sempre presente proprio lì. Ti ascolta quando nessun altro ti ascolta, ascolta ogni tua preghiera. Anche se la tua vita è tranquilla, umile, come una «camera» in cui pochi guardano, Lui vi guarda sempre. Davanti ai suoi occhi sei un figlio amato, per l’eternità: «Ti restituirà».
Gesù, infine, ci insegna le parole con cui pregare: «Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli» (v. 8). «Pregare per Gesù, è aprirsi al Padre […] e il Suo progetto è inserire tutti noi nella “volontà del Padre”, perché tutti possiamo trovare in lui la vera pace e felicità»[viii]. Occorre aggiungere, che la preghiera del Padre nostro è stata posta da Matteo al centro del sermone sul monte. È il cuore dell’insegnamento di Gesù sul monte, così come il cuore del Vangelo che egli predica è il Padre. Ci insegna una preghiera che ci porta in una relazione intima e fiduciosa con il Padre.
In questa preghiera, ogni parola ci parla del Padre che vede nel segreto, della sua cura premurosa. Allo stesso tempo, ci aiuta a scoprire in noi il cuore di un bambino. Ci insegna a pregare come un bambino. Ci insegna a benedire il Padre, a desiderarlo, ad affidarci a Lui, a confidare che non ci lascerà mai senza pane, che ci perdonerà sempre e che mi proteggerà, mi salverà dal male. Ogni volta che pronunciamo «perdonaci», tante volte ci ricorderemo che Lui si aspetta da me lo stesso amore verso i miei fratelli e sorelle, perché anche loro sono suoi figli. Gesù, appunto come un fratello maggiore, ci guida insieme e ci insegna a pregare un Padre comune il cui sole sorge sui buoni e sui cattivi (Mt 5,45). Chiamare Dio «Padre» esattamente come il successivo aggettivo «nostro» qualifica una dinamica relazionale. Chiamare Dio «Padre» significa riconoscersi figli, e chiamarlo «nostro» riconoscere di avere fratelli e sorelle.
«Ricordo una bellissima esperienza di preghiera», racconta padre Bernhard Häring (1912-1998), eminente moralista e professore dell’Accademia Alfonsiana, ricordando l’esperienza della seconda guerra mondiale a cui ha partecipato come cappellano militare. «L’ultima sera, quando arrivammo al confine, oltre il quale ci saremmo uniti all’esercito tedesco, trovammo una casa che accolse i feriti con quanti li accudivamo. Dalle case vicine venivano delle persone a portare il latte e il pane. E il giorno seguente, prima di ripartire, chiesi alla signora che ci aveva ospitato: “Come potete voi dimostrare tanta misericordia verso uomini di un popolo che ha fatto tanto male alla vostra gente?”. Mi rispose: “Noi abbiamo cinque figli nell’esercito russo e preghiamo ogni giorno il Padre dei cieli perché ce li faccia ritornare a casa. Come avremmo potuto, oggi, continuare a pregare se avessimo dimenticato che le vostre mamme e le vostre spose pregano lo stesso Padre celeste?”»[ix].
Si comprende meglio, allora, come il nostro grande teologo moralista possa dichiarare con la semplicità di un bambino: «Prego perché vivo, perché la mia vita è per me un grande dono. Dono che Dio mi ha fatto attraverso i miei genitori. […] Poi è arrivato il dono della consapevolezza: sapere di essere chiamato a pregare per vivere in pienezza. […] Io prego perché vivo e cerco di pregare sempre meglio per vivere in pienezza»[x].
prof. Krzysztof Bieliński, CSsR
[i] Benedetto XVI, Udienza generale, mercoledì, 30 novembre 2011, in https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111130.html [accesso: 16.02.2023].
[ii] Francesco, Omelia, Basilica di Santa Sabina, Mercoledì del 6 marzo 2019, in https://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2019/documents/papa-francesco_20190306_omelia-ceneri.html [accesso: 17.02.2023].
[iii] B. Häring – V. Salvoldi, Prego perché vivo. Vivo perché prego, Cittadella Editrice, Assisi 19972, 49.
[iv] R. Fabris, Matteo, Edizioni Borla, Roma 1982, 148.151.
[v] Mi rifaccio qui alle considerazioni di K. Wons, Powierzyć się Jezusowi. Rekolekcje ze św. Mateuszem [Affidarsi a Gesù. Un ritiro con san Matteo], Wydawnictwo Salwator, Kraków 2012.
[vi] Cf. R. Fabris, Matteo, 153.
[vii] Cf. D. J. Harrington, Il Vangelo di Matteo, Elledici, Torino 2005, 85.
[viii] B. Häring – V. Salvoldi, Prego perché vivo, 82-83.
[ix] B. Häring – V. Salvoldi, Prego perché vivo, 50.
[x] B. Häring – V. Salvoldi, Prego perché vivo, 25.