Suicidio assistito: accompagnare sino alla fine?

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(dal Blog dell’Accademia Alfonsiana)

La discussione bioetica sul fine vita negli ultimi anni si è focalizzata sul cosiddetto diritto a morire (right to die) del paziente inteso come massima espressione della sua autonomia. Dal punto di vista razionale appare assurdo che un soggetto affermi se stesso con un atto che ha come finalità la propria autodistruzione: essere viventi è la condizione previa per poter prendere qualsiasi decisione e, per ciò stesso, la vita non può essere oggetto possibile di scelta. La legalizzazione o la tolleranza in alcuni paesi del suicidio di un paziente con l’assistenza di un sanitario (in Italia dal 2019 con una sentenza della Corte Costituzionale) (comunicato) costituisce una sfida per la pastorale: la volontà di darsi la morte non si configura mai come un atto moralmente accettabile, così come non è accettabile collaborare a mettere in atto una intenzione suicida. Tuttavia sembra contrario alla carità che una persona sofferente sia lasciato sola dalla Comunità cristiana in un momento così drammatico; per questo motivo sono stati prodotti negli ultimi anni diversi documenti che affrontano questa situazione nuova e conturbante[i]. Nel dicembre del 2019 è uscito, dopo un intenso dibattito interno, un documento della Conferenza dei Vescovi Svizzeri, Attitude pastorale face á la pratique du suicide assisté. Orientations pastorales (Scheda).

            Nel documento si prende atto della crescente domanda di suicidio assistito e la si esamina dal punto di vista psicologico, sociologico ed etico. Il desiderio di suicidio può essere suscitato dalla paura di patire sofferenze insopportabili o di cadere preda dell’accanimento terapeutico o di perdere la propria dignità al termine della vita, ma anche da un profondo senso d’inutilità soprattutto negli anziani. È dovere della società fornire vicinanza, assistenza e cure palliative che sono le vere risposte alle cause di richiesta di suicidio assistito (cfr. Attitude 5-8). Si può capire la dinamica psicologica che porta alla richiesta di suicidio, ma non si può mai giustificare un atto intenzionalmente suicida, né farsi collaboratori di esso, soprattutto se si tratta di personale sanitario che, per etica professionale, dovrebbe essere sempre al servizio della vita (cfr. Attitude 7-11). Alquanto delicata è la posizione dell’agente pastorale. I Vescovi svizzeri formulano una regola generale che chiede un attento discernimento caso per caso: «Bisogna accompagnare il più avanti possibile le persone decise a un suicidio medicalmente assistito» (Attitude 15). L’accompagnamento comporta di prendere atto delle intenzioni suicide, senza che questo significhi condividerle e senza mai perdere la speranza che esse vengano superate. «Bisogna, al contrario, considerare che l’accompagnamento spirituale è un cammino di maturazione e di purificazione di tutti i desideri sotto lo sguardo di tenerezza e di misericordia di Dio» (Attitude 12). La celebrazione del sacramento della riconciliazione e la comunione eucaristica in questo contesto di accompagnamento chiedono di ben valutare le disposizioni del fedele sia riguardo alla sua reale consapevolezza della inaccettabilità di una scelta suicida, sia riguardo alla sua disponibilità a metterla in discussione e superarla. La terza parte del documento fornisce un’ampia e variegata tipologia di situazioni (cfr. Attitude 21-30). Quando si danno le disposizioni sufficienti e non c’è rischio di dare l’impressione di giustificare una scelta antievangelica, si possono celebrare i sacramenti, ma questa celebrazione non darsi in nessun modo quando la morte non è accolta, ma è procurata coscientemente e volontariamente. Il viatico è il sacramento della vita che accompagna il fedele nel suo accogliere la morte come passaggio e non può essere ricevuto in un contesto di ricerca volontaria della morte (cfr. Attitude 16-17).

L’operatore pastorale è invitato a restare accanto al candidato al suicidio fino all’ultimo, nella speranza di un mutamento d’intenzione, ma «deve lasciare la camera del paziente allorché inizia la procedura che precede immediatamente l’assunzione del prodotto letale» (Attitude 16). Secondo le indicazioni dei Vescovi è inviato a ritirarsi in prossimità del luogo del suicidio per poter intervenire ogni momento, in caso di segni di pentimento, fosse anche nei minuti –  in media una ventina – che intercorrono fra l’assunzione del farmaco letale e la perdita di coscienza prima della morte (ibid.). La stampa, inclusa quella cattolica, ha sottolineato nei titoli e nei commenti questo abbandono della stanza da parte del sacerdote, favorendo una impressione falsata del documento che non dà indicazioni operative né rigoriste, né escludenti, ma che è ispirato a grande pietà, comprensione e pazienza. Sarà l’esperienza pastorale quotidiana il banco di prova finale della bontà di questi orientamenti.

Padre Maurizio P. Faggioni, OFM

[i] Alla fine del 2016 i Vescovi della provincia canadese di Alberta e dei Territori del Nord-Ovest hanno pubblicato delle Guidelines for the Celebration of the Sacraments with Persons and Families Considering or Opting for Death by Assisted Suicide or Euthanasia. Nello stesso periodo usciva A Pastoral Reflection on Medical Assistance in Dying della Atlantic Episcopal Assembly of the Catholic Church, a nostro avviso più equilibrato del precedente. Nel marzo del 2017 veniva diffuso uno sconcertante documento del Gruppo belga dei Fratelli della Carità intitolato View of the Brothers of Charity Group in Belgium of euthanasia for mental suffering in a non-terminal situation.