L’esperienza della sofferenza

0
700

(dal Blog dell’Accademia Alfonsiana)

Ciò che sta accadendo ai nostri giorni, mi riferisco alla pandemia del Covid-19, ci porta a ridare maggiore spazio a un aspetto della ricerca teologica biblica che in realtà non è mai venuto meno, ma che oggi forse viviamo con una consapevolezza rinnovata, soprattutto per le condizioni in cui ci troviamo. Nei momenti più bui della storia, nelle guerre, nelle carestie, nelle epidemie come in tutte le altre tribolazioni, l’uomo rivela la sua vera natura, di figlio della luce o di figlio delle tenebre, che gli consente di accettare il senso del suo limite con piena fiducia anzi con intrepido coraggio invece con rabbiosa disperazione. Chi accetta di vivere l’avventura umana nella fede dei figli di Dio lo avrà sempre al suo fianco.

La Bibbia non è un trattato di filosofia e nemmeno di teologia, nel senso che normalmente attribuiamo a queste discipline. La Bibbia ci presenta un’esperienza in cui l’uomo ha quasi sempre un nome, si chiama Abramo, Giacobbe, Mosè, Giobbe, l’intero popolo d’Israele: uomini veri, concreti, visti e seguiti nelle loro vicende, nelle loro esperienze di vita. Quando l’autore biblico si pone degli interrogativi, alla maniera dei filosofi, e si chiede per esempio perché esiste la sofferenza nel mondo e per quale motivo la condizione dell’uomo è questa e non un’altra, egli stesso non risponde con una teoria, ma con un’esperienza, quella del primo uomo.

Il libro di Giobbe è senz’altro la narrazione più drammatica dell’esperienza umana della sofferenza, resa più acuta dal silenzio di un Dio che, dopo averla permessa per ragioni incomprensibili all’uomo, appare a molti, incapace di trovare una soluzione ragionevole. Giobbe conosce la potenza di colui che è sopra il mondo, sopra il destino, al quale è possibile appellarsi nella sofferenza. Giobbe rivolge a Dio il suo grido e questo grido diviene il simbolo di una lotta contro Dio stesso; solo la Bibbia riporta il fenomeno della lotta personale con Dio, della lotta di Giobbe, di tutto Israele.

Per Giobbe, l’uomo non riesce a spiegare la sofferenza: egli vuole coinvolgere Dio in modo diretto, nella soluzione del male enigmatico ed eccedente la ragione. E Dio accetta di deporre in questa specie di processo in cui la vittima del male ha voluto fosse convocato. C’è un aspetto rilevante della sofferenza che non può essere razionalizzato e quindi Giobbe ha ragione di protestare (Gb 42,7). La sofferenza urla il suo scandalo accecante nella mente dell’uomo.

Dio rivela all’uomo che esiste un progetto, una razionalità trascendente. Nell’incontro con Dio, Giobbe ha compreso i suoi limiti nel tempo (Gb 38,4) e nella conoscenza (Gb 38,4-5; 39,26) e, quindi, limiti nel potere. L’uomo conosce soltanto i margini del mistero. Tuttavia, la serie di domande e di imperativi con i quali Dio incalza Giobbe non è inutile. Scoprendo il volto di Dio attraverso il creato, l’uomo scopre sé stesso alla luce dell’opera di Dio. La creazione è l’ordine che regola l’universo e costituisce il fondamento dell’etica sapienziale. In Gb 38-42, la risposta di Dio è racchiusa nella descrizione della stessa creazione. La conoscenza del creato, che è disponibile all’uomo, si apre all’ammirazione per le opere meravigliose di Dio mentre il senso del cosmo, che non è indispensabile agli uomini, resta loro sconosciuto nella sua reale profondità. L’uomo, quando intende parlare della grandezza o della giustizia di Dio, deve porsi in un atteggiamento di meraviglia e di adorazione che nasce dalla consapevolezza del proprio limite. Il problema del libro di Giobbe non è la sofferenza, ma la scoperta del vero volto di Dio. Giobbe si è incontrato con Dio, faccia a faccia. Il miracolo del libro sta nel fatto che Giobbe, nella sua ribellione, non si sottrae a Dio neanche quando Dio gli appare come nemico, Giobbe resta un uomo di fede, e perciò trova Dio. Nel silenzio finale, Giobbe sorretto da una fede incrollabile, perviene al ragionamento esatto e trova le parole giuste per rivolgersi al Signore: “Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Il Signore si è rivelato a Giobbe nelle sofferenze. La fede è piena del senso del limite, perché essa non è né nostra conquista né nostro possesso: è un dono e per di più dono portato in recipienti fragili (2Cor 4,7). Essa dunque ci porta ad essere prossimi a coloro che sbagliano, sapendo compatirne le infermità, come fece Cristo (Eb 4,15).

Dio permettendo la sofferenza, non ha lasciato solo l’uomo, ma ha preso su di sé la sofferenza umana nel Figlio incarnato, per la nostra salvezza. L’ultima visione di Daniele (Dn 12,1-3), il secondo libro dei Maccabei (1Mac 7,9.11.14.23; 12,43-46) e il libro della Sapienza (Sap 1-5) rivelano il destino eterno riservato ai giusti e ai peccatori. Il Nuovo Testamento, spiegando gli insegnamenti del Servo del Signore (Is 53,1-12), finirà col giungere alla soluzione che il giusto potrebbe desiderare la sofferenza nella sua vita, perché la sofferenza del giusto ha un valore redentivo (Rm 5,6-19; 1Cor 15,3; 2Cor 5,15; Col 1,14.20.24). Alla luce del Nuovo Testamento noi contempliamo nel Cristo che ha sofferto per noi, prima di entrare nella gloria, il perfetto esempio di risposta al problema della sofferenza che si ripropone sempre, ma che, dopo la venuta di Cristo, è illuminato da una sicura speranza.

p. Gabriel Witaszek, CSsR