(dal Blog dell’Accademia Alfonsiana)
In seguito alla pubblicazione di Fiducia supplicans si sono sentite voci e sono apparsi scritti di diverso tipo, sia a favore che contro la dichiarazione; fino a considerarla una violazione della tradizione della Chiesa oppure nient’altro che una finta apertura. Comunque sia, la polvere è stata sollevata. Non sappiamo se è quello che ci si aspettava; ma, come afferma un proverbio spagnolo, non esiste male che non venga accompagnato da qualche bene.
Soprattutto è positivo che si vedano reazioni diverse e che siano rese pubbliche con rispetto e onestà. In ogni caso, non cessa di stupire come in alcuni casi sembri che il tema della “novità” di questa dichiarazione sia stato sfruttato per attaccare l’impostazione del pontificato del papa Francesco nel suo complesso, anche sottolineando che un tale dissenso non costituirebbe una mancanza di rispetto e di fedeltà al Papa in quanto successore di Pietro.
Di tutte le reazioni, forse quella che ha guadagnato più notorietà è stata la Lettera proveniente dall’Africa, in rappresentanza di «varie conferenze episcopali nazionali e interterritoriali in tutto il continente africano», che ha ottenuto il consenso del Papa e del prefetto del Dicastero. Si tratta di una lettera molto ben scritta, anche se si limita a ripetere questioni già affrontate, per affermare solo che l’episcopato africano, in virtù della sua autorità pastorale e col criterio di evitare qualsiasi tipo di confusione, adotterà la seguente linea: «Le conferenze episcopali preferiscono generalmente – ogni vescovo rimane libero nella sua diocesi – non offrire benedizioni a coppie dello stesso sesso». Oltre a dire – non si sa bene in quale senso – che il linguaggio della dichiarazione «rimane troppo sottile per essere compreso dalla gente semplice»[ii. Si tratta di affermazioni che possono essere accolte anche senza una simile reazione corporativa e mediatica, in quanto sia la dichiarazione che la reazione hanno un tenore pastorale legittimo, rimandano alle forme ordinarie di inculturazione e alle forme possibili di adattamento pastorale. Inoltre, va notato che non si tratterebbe di «offrire» attivamente o di promuovere, ma solo di essere disponibili a impartire determinate benedizioni. Tuttavia, ciò che è emerso è più di ciò che semplicemente appare. E su questo vorremmo soffermarci brevemente.
Sinteticamente si potrebbe dire che la Chiesa si trova ora di fronte a un conflitto tra una visione pastorale evangelico-sapienziale-profetica e una visione pastorale legata all’osservanza di rubriche, limitata a ciò che è consentito o non consentito, secondo regole stabilite una volta per sempre, come se fossero immutabili. E dietro a ciò – questione, forse, ancora più allarmante – si profila una sorta di paralisi intorno alle formulazioni dottrinali, come se esse non si fossero sviluppate nel corso della storia e non fossero chiamate a continuare ad evolversi, con tutte le trasformazioni necessarie, sempre «alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana» (GS, n. 46). Fa bene, di tanto in tanto, ricordarsi che anche lo stesso dogma è un mezzo in vista di un fine e non un fine in sé stesso e che, talvolta, occorre mettere in discussione la sua formulazione per comprendere se è ancora efficace per trasmettere la verità salvifica del Vangelo nell’oggi della storia.
La dichiarazione, che esprime chiaramente una motivazione e un’intenzione del magistero pastorale della Chiesa, nella Presentazione propone quattro aspetti che mettono in risalto la prassi e la posizione dottrinale classica (i primi due) e altri che appaiono come “nuovi” (gli ultimi due):
- La dichiarazione risponde alle domande che sono pervenute al Dicastero e che sono state oggetto delle dovute consultazioni prima della sua pubblicazione ufficiale.
- «Resta ferma sulla dottrina tradizionale della Chiesa circa il matrimonio, non ammettendo nessun tipo di rito liturgico o benedizioni simili a un rito liturgico che possano creare confusione».
- La dichiarazione intende «offrire un contributo specifico e innovativo al significato pastorale delle benedizioni, che permette di ampliarne e arricchirne la comprensione classica strettamente legata a una prospettiva liturgica».
- «Ed è proprio in tale contesto che si può comprendere la possibilità di benedire le coppie in situazioni irregolari e le coppie dello stesso sesso, senza convalidare ufficialmente il loro status o modificare in alcun modo l’insegnamento perenne della Chiesa sul matrimonio».
Le prime due affermazioni non necessitano di alcun commento. Probabilmente occorrerebbe solo aggiungere che l’argomento dottrinale non dovrebbe essere messo in discussione in questo tipo di dichiarazioni, e che, al contempo, in sede teologica o magisteriale, certe formulazioni riguardanti i Sacramenti dovrebbero essere sottoposte a una seria discussione all’interno di un percorso umile, ma coraggioso di aggiornamento.
Il terzo punto è interessante, anche se solleva alcune perplessità. Da un lato, infatti, offre una ricca riflessione sul significato delle benedizioni e sulle grandi potenzialità di questi gesti, intesi come segno della presenza di Dio, nella complessità della vita quotidiana. Sebbene si possa comprendere la distinzione tra riti liturgici e non liturgici – analoga a quella più antica tra Sacramenti e “sacramentali” –, tuttavia si fa fatica a capire una simile classificazione, che potrebbe condurre al fraintendimento di una distinzione tra benedizioni di prima e di seconda categoria o più o meno importante. Anche se vengono approvate le benedizioni spontanee, cioè non scritte in rituali precisi e con l’approvazione ecclesiastica (cf. n. 35), esse non devono essere sminuite e considerate meno importanti di quelle scritte e approvate. Qui, a nostro avviso, potrebbe risiedere il punto più debole della dichiarazione. Infatti, il significato e la portata delle benedizioni potrebbero essere ampliati senza dover fare questa classificazione (cf. «una semplice benedizione», n. 38). Si tratterebbe davvero di offrire una risposta pastorale evangelica-sapienziale-profetica e non solo un semplice rinnovamento, più decorativo che sostanzialmente riformatore.
Il quarto punto per alcuni costituirebbe apparentemente la pietra dello “scandalo”, al punto di sentirsi “sconvolti” e di reagire con una certa virulenza. Innanzitutto, nella dichiarazione si parla di «possibilità»: ciò vuol dire che non è né obbligatoria né automatica, come accade per ogni tipo di benedizione, che dipende sempre dal discernimento pastorale della persona responsabile di impartirla. Ciò che si dice è che in termini generali si possono benedire le persone che vivono queste relazioni senza che ciò implichi l’approvazione dello stato in cui le persone vivono[iii]. Ciò si può riscontrare in tanti altri contesti di benedizione sia nel passato che nel presente: per esempio, quando si benedicevano le armi, si presumeva di non benedire l’odio o la violenza o l’annientamento che le armi in contesti di guerra implicano; o quando si visitano o benedicono le persone nelle carceri, è pacifico che non si sta approvando i loro atteggiamenti malvagi, né quelli passati, né tanto meno quelli che possono essere mantenuti durante lo stato di reclusione. In questo senso, forse vale la pena dire che il documento avrebbe dovuto dire più esplicitamente che si benedicono le persone, sia individualmente che in coppia, perché ogni persona merita di ricevere un gesto simile, per le ragioni che la stessa dichiarazione offre ampiamente, al di là delle loro condizioni oggettive e perfino soggettive di vita. Poiché nelle reazioni negative a compiere questi gesti si continua, purtroppo, a far prevalere “il sabato sull’uomo”, la norma sulla grazia, la legge sulle persone, l’oggettività delle regole sulla centralità della relazione personale che, invece, l’azione della grazia suppone nel cammino della realizzazione umana e cristiana.
L’apertura a queste forme di benedizione che Fiducia supplicans ci offre, invece, va proprio nella direzione opposta: ci ribadisce che «a causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (AL, n. 305), e le benedizioni possono essere una delle forme di questo “aiuto”. Ci ricorda che ogni persona «conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita» (FC, n. 34) e che – come sosteneva Sant’Alfonso – il compito dei pastori (il patrono dei moralisti ne parla a proposito dei confessori) è primariamente quello di essere padri, poi medici, poi dottori, e, solo alla fine, giudici. Infine, ci esorta a ritenere prioritario, nella prassi pastorale, l’avvio di processi anziché l’occupazione di spazi (cf. EG, n. 223), al fine di privilegiare ciò che fa crescere la società e aiuta tutti e tutte a essere integrati nella comunità ecclesiale.
In questo senso, si è alzato il polverone, ma il punto da discutere non sono le benedizioni, quanto la comprensione antropologica, sacramentale e morale che segue cammini diversi e contrastanti in gran parte della Chiesa (cf. l’altro polverone sollevato da Amoris laetitia), e che, a quanto pare, richiede molta fatica per tradurre le ispirazioni del Vangelo e il rinnovamento operato dalla Chiesa conciliare nel Vaticano II[iv].
A.G. Fidalgo, C.Ss.R. – R. Massaro – G. Del Missier