Costruire comunità oggi, da Redentoristi

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UN SOLO CORPO – 1/2024

Premessa

All’inizio di questa riflessione, devo ammettere che nel preparare una traccia per questa condivisione, alcuni dubbi mi hanno attraversato la mente: A quale comunità mi sto rivolgendo? Grande o piccola, multiculturale o omogenea, nazionale o internazionale (viste le province di nuova formazione o riconfigurate che abbiamo oggi)? Come faccio a parlare di comunità a confratelli che magari fanno parte di una grande comunità multiculturale e multilingue, e forse internazionale, che è a dir poco originale e multiforme, fatta di tanti interessi diversi (“missione”) quanti sono i gruppi che la compongono? La nostra realtà di Riconfigurazione per la missione ci ha dato l’opportunità di riflettere su una nuova realtà della vita comunitaria di oggi. Il sapore della diversità nella vita comunitaria di oggi in termini di culture, lingue, interessi, provenienze, aspirazioni, gruppi di età, modi di sperimentare e vivere l’unica missione della Congregazione.

Una prima risposta a queste domande mi dice che tutti, nessuno escluso, inclusi i dotti e i sapienti, siamo interpellati dal tema della comunità. In fondo ognuno di noi, col passare degli anni, finisce col crearsi uno spazio, una idea di comunità e un modo di relazionarsi ad essa; uno spazio che a volte può diventare un nido, un rifugio. Ed è da questo spazio che il tema comunità in qualche modo vuol tirarci fuori, vuole “stanarci” per farci passare attraverso le maglie della relazione, del confronto con l’altro, del confronto con Dio e con quello che lui ci chiede. Ognuno di noi non smette mai di imparare da quella maestra esigente e spesso impietosa che è la vita, di cui una delle lezioni più esigenti riguarda la comunità.

Un’altra domanda mi passava per la mente: cosa dire di più e di meglio di quanto ha detto già il Capitolo Generale (in particolare nel Documento Finale della seconda fase) su di un tema così fondamentale e decisivo come quello della vita comunitaria? Cosa dire di più e di meglio di quanto il Superiore Generale ha detto a tutta la Congregazione con la pregevole lettera inviata alla Congregazione nello scorso mese di dicembre [1],  nel quadro dell’anno dedicato alla vita comunitaria? 

A queste domande non ho saputo rispondere che con altre domande: che uso facciamo di quanto proviene da quei confratelli – si tratti di un Superiore Generale o di un (V)Provinciale o degli stessi membri del Capitolo Generale – cui noi abbiamo affidato il duplice ministero del governo e della comunione? Diamo pure per scontato che esse sono persone fallibili, quanto e forse più di noi: ma se c’è qualcosa di specifico nel loro compito (una volta si parlava di grazia di stato, che a volte diventa “fardello di stato”) questo si chiama in primo luogo “visione d’insieme”, mentre a noi normalmente sfugge qualcosa di ciò che essi sanno (spesso per motivi di prudenza); e in secondo luogo la preoccupazione di attuare qui e ora ciò che di bello e grande troviamo nelle nostre Costituzioni o nella stessa Parola di Dio. Visione di insieme e attualizzazione da cui gli altri confratelli non sono dispensati, ma che non sono il loro primo cruccio quotidiano.

In realtà sappiamo tutti, io per primo, il destino che riserviamo a una circolare, a una Communicanda, ad una lettera che ci arriva da un Superiore. Non parlo dell’aria di sufficienza, dell’indifferenza o peggio ancora dell’ignoranza che riserviamo a questi documenti. Voglio piuttosto pensare al positivo del confratello che legge, prende visione, e passa oltre, perché le cose da fare, da studiare e da leggere sono molte. Mi chiedo con voi: un uso individuale di questi documenti non è – pur non volendo – un avallo a qualche forma di individualismo? Se il Capitolo Generale ha usato più volte il verbo “re-immaginare”, non è questo un campo nel quale mettere all’opera questo verbo? Nella nostra creatività non riusciamo a trovare forme per condividere questi testi, magari per criticarli, o per reagire? Non ho nostalgia dei tempi in cui le circolari le si leggeva a tavola. Mi preme solo sollevare una domanda, e chissà rispondere a un bisogno che rimane tale: fare uso comune, mettere al servizio del bene comune ciò che riguarda tutti. 

Fede e vita fraterna

Mi trovo molto in sintonia con quanto determinato dal Governo Generale, che ha messo la vita di comunità al primo posto nel suo programma di animazione della Congregazione. Lo faccio alla luce della mia esperienza più recente, quella di Superiore Provinciale (anche se prossimo a scadenza), ma anche di quella più lontana nel tempo (sono passati 14 anni!) che mi ha permesso di avere una conoscenza diretta e prolungata della nostra famiglia religiosa.

 Ero e sono convinto che la prima urgenza per la Congregazione è ritrovare la comunità come sua legge fondamentale (Cost. 21). Non è la Missione a mancarci, anzi essa acquista splendore e attualità anche di fronte a scenari inediti e tutti da esplorare, come quelli del terzo millennio. Non saranno i poveri e gli abbandonati a mancarci, quelli li avremo sempre con noi (Gv 12,8). Sfide e problemi affliggono la Formazione e il Governo della comunità apostolica, come la stessa nostra Consacrazione. Ma è la comunità il filtro attraverso il quale tutto passa, e senza il quale tutto si blocca. 

Ce lo dice chiaramente il p. Generale nella sua lettera sulla comunità: “abbiamo iniziato con la comunità perché è una realtà fragile nella Congregazione” (nr 1). E subito dopo ricorda che questa preoccupazione affligge l’intera vita religiosa oggi: al Dicastero Vaticano per la Vita Consacrata risulta che i motivi principali per cui almeno duemila religiosi lasciano ogni anno la vita consacrata, sono la perdita della fede e della vita comunitaria.

I motivi per cui la fede si estingue nel vissuto di un consacrato possono essere tanti, a cominciare dal cedere davanti a una spiegazione scientifica del reale, che spiega il mondo come frutto del caso, o dalla nostra pretesa frustrata di dare un volto a Dio, cadendo nel primo di tutti i peccati, quello della idolatria.

Mi preme piuttosto evidenziare il rapporto che c’è tra fede e vita comunitaria. Non solo nel senso inteso dal p. Generale, quando ci chiede se crediamo abbastanza nella vita comunitaria (2.a), ma ad un livello ulteriore di profondità. Quello che ci fa dire che fede e comunità stanno insieme, o insieme affondano.

A farmi scendere a questo livello è una constatazione: se col passare dei decenni la vita di comunità continua ad essere un problema per molti, se non riusciamo a venirne a capo malgrado i numerosi tentativi esperiti e sollecitati (pensiamo al Progetto di vita comunitaria, alle proposte di formazione permanente, ai richiami sui processi decisionali, ecc.), evidentemente la soluzione va cercata ad altro livello che non sia semplicemente quello delle tecniche o delle metodologie. O siamo in grado di scendere a questo livello più profondo, che chiama in causa la fede, oppure le tecniche e metodologie finiscono col diventare forme di accanimento su di un malato terminale, in questo caso la comunità. E spero di non apparire catastrofico.

Questo livello chiama in causa la consistenza del nostro rapporto con Dio. Dobbiamo ammettere che nostro malgrado, complice una nostra mancanza di consapevolezza, dovuta alla semplice routine, nella nostra vita si verifica una sorta di erosione di quel “sì” che un giorno e con entusiasmo abbiamo pronunciato davanti a Dio.  A questo rischio accenna il p. Generale quando dice: “Una comunità religiosa che non ha una relazione con Dio è vuota”… e – per concretezza aggiunge subito dopo: “Il rapporto con Dio comprende la preghiera personale e comunitaria” (nr. 1-a).

 Se questo avviene, se questa erosione si verifica, non sempre è per colpe o inadempienze macroscopiche di Tizio o di Caio. In fondo, è l’aria che respiriamo, è la cultura del post moderno che la fomenta. Provo a catturare quest’aria dentro una formula, il famoso “fattore D”, che si limita – si fa per dire – a togliere l’iniziale della parola Dio, lasciando nudo e nello stesso onnipotente l’IO. 

Quando parlo di fattore D, intendo il modo in cui io guardo alla storia, alle persone, alle notizie, alla comunità, al confratello che mi siede accanto o che incrocio nel corridoio. È una posizione mentale che per noi Redentoristi presume la contemplazione: parola che di istinto noi estromettiamo dal nostro vocabolario, ritenendola appannaggio di claustrali e certosini, o forse capitata nelle nostre Costituzioni per chissà quale via, non appropriata a dei missionari. 

Da parte mia sono convinto che un Redentorista che parla di contemplazione lo fa attingendo al cuore di Alfonso, a condizione che non riduca la sua spiritualità a una serie di definizioni costruite a tavolino, o a delle sintesi sbrigative. 

Penso che apprezziamo meglio Alfonso se lo vediamo come navigante di un fiume, che parte dai Padri del Monachesimo, passa per l’esicasmo, arriva fino a Meister Eckart e ai Mistici Renani, a Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, e che attraverso Alfonso raggiunge quella che oggi si configura come preghiera profonda: un desiderio di preghiera che ci sottragga alla superficialità e al disorientamento oggi dominanti. Se in Alfonso la preghiera verbale prende il sopravvento sul silenzio, ciò avviene per un motivo quasi esclusivamente missionario, per mettere sulle labbra dei semplici contenuti di altissima qualità (don Giuseppe De Luca), ma la posta in gioco è la stessa: si pensi alla logica dell’amore che pervade le Visite al Santissimo Sacramento o la Pratica di amare Gesù Cristo, o l’assemblea celeste che decide l’incarnazione (vd la Novena di Natale) perché Dio ha perso l’uomo con cui condivideva le sue delizie; o di quando Alfonso dice che il paradiso di Dio è il cuore dell’uomo (Modo di conversare alla familiare con Dio); o della stessa concezione che c’è alla base della Uniformità alla volontà di Dio, fare dei fatti un modo per amare e re-innamorarsi di Dio.

Chiedo scusa per la lunga digressione, era solo per dire che la contemplazione è dimensione imprescindibile della nostra fede (e della vita di comunità). Motivo per dare ragione alle nostre Costituzioni, quando la vedono come condizione per 

“Sviluppare e rinforzare la fede, e per riconoscere Dio nelle persone e nelle vicende di ogni giorno, per cogliere nella sua vera luce il suo disegno di salvezza e distinguere la realtà dall’illusione” (Cfr Cost 24).  

Penso che una citazione da Thomas Merton ci aiuti a capire meglio la posta in gioco oggi: 

L’«io» che opera nel mondo, che pensa a sé stesso, che osserva le proprie reazioni, che parla di sé stesso, non è il «vero io» che è stato unito a Dio in Cristo. È tutt’al più l’abito, la maschera, il travestimento di quell’io misterioso e sconosciuto che la maggior parte di noi non arriva mai a conoscere veramente se non dopo la morte. La nostra personalità esteriore non è né eterna né spirituale; è ben lungi dall’esserlo. Questo «io» è destinato a sparire come fumo. È del tutto fragile ed evanescente. La contemplazione è precisamente la consapevolezza che questo «io» è in effetti il «non io» (…). Nulla è più contrario alla contemplazione, del cogito ergo sum di Cartesio. «Penso, quindi sono». Questa è la dichiarazione di un essere alienato, esiliato dalle sue profondità spirituali, costretto a cercar conforto nella prova della sua esistenza (!) basata sulla osservazione che egli «pensa». (…) Egli giunge al suo essere come se fosse una realtà oggettiva, ossia si sforza di diventare consapevole di sé stesso come lo sarebbe di qualcosa al di fuori di sé stesso. E dimostra che la tal «cosa» esiste. E si convince: «Io sono quindi qualche cosa». Poi prosegue a convincersi che anche Dio, l’infinito, il trascendente, è una «cosa», un «oggetto» come altri oggetti finiti e limitati del nostro pensiero! L’inferno può essere definito come l’alienazione perpetua dal nostro vero essere, dal nostro vero «io» che è in Dio. (Semi di contemplazione, 2).

Trovo queste parole straordinarie per efficacia e chiarezza. Esse ci aiutano a distinguere la contemplazione dalla ragione, e a capire ciò che appartiene all’una e ciò che appartiene all’altra. E a chiederci: da quale parte del campo mi trovo a giocare, quella propria di Dio, o quella dell’Io? Non c’è modo di stare in tribuna. O si sta da una parte o dall’altra, tertium non datur.

Se alla ragione fanno capo tante cose belle e buone che non sto qui a enumerare, ma anche tutto ciò che papa Francesco chiama autoreferenzialità, o mondanità, penso che nell’orbita propria della contemplazione abbiano fondata cittadinanza la libertà interiore, il distacco, la gratuità, l’ascesi, l’entusiasmo, la castità, la meditazione, le cose fatte per amore a Gesù Cristo, il ricordare a me stesso – una e cento volte – che la mia vita è DONO, che la mia fede è ABBANDONO o non è.  

Tutto ciò può sembrare una lista di ideali astratti, di “valori”, come spesso li si chiama: ma posso dire, alla luce della mia esperienza personale (ex formatore, conoscenza della Congregazione e … della Provincia), come alla fin fine tutto si riduce alla logica con cui affrontiamo il nostro vivere. Alla fin fine dobbiamo ammettere (ripeto: non per proclama ideologico, ma per constatazione dei fatti) che spesso ci fermiamo alle prime due dimensioni della antropologia cristiana, il biòs e la psykè, sacrificando quella dello pneuma (o zoè per Giovanni). 

Penso che questa consapevolezza dovrebbe essere la materia prima della formazione, già nelle sue fasi iniziali. Se non sufficientemente assimilata, essa estromette dalla fatica propria e quotidiana di fare nostro il “pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). E si manifesta nella sclerosi del cuore, che non solo permette il libello del ripudio, ma anche tante manifestazioni che siamo costretti a far risalire al “carattere”, al “quello è fatto così”, ai giudizi spietati, alle prese di distanza dagli altri; oppure allo scambiare – come dice il p. Generale nella sua lettera – la comunità per un albergo (nr 1.a).

A che punto siamo

Una delle affermazioni che nel Documento preparatorio alla seconda fase del XXVI Capitolo Generale ha richiamato di più la mia attenzione, la si ritrova all’ultimo paragrafo:

Il 26° Capitolo Generale potrebbe essere uno dei più importanti degli ultimi tempi nel rinnovamento della nostra vita apostolica. Saremo coraggiosi nella direzione che dobbiamo prendere? Risponderemo ai suggerimenti dello Spirito, specialmente in un contesto post-pandemico dove il mondo non è più lo stesso? Come risponderemo, come Congregazione, essendo fedeli allo Spirito, al Vangelo e al carisma di fondazione? Questo dipende da ciascuno di noi… (nr 106)

Ora che si è già celebrato non solo la seconda ma anche la terza fase del Capitolo, cosa possiamo dire di questo “potrebbe”? Il Capitolo ci è scivolato addosso, non lasciando una pur minima traccia alla pari dei precedenti?

Nel pormi queste domande, sono io il primo a riconoscermi inadempiente. Sono anche io figlio di questo tempo, tentato di dare al Documento Finale del Capitolo la stessa importanza (e minor tempo) che riservo all’ultima serie di Netflix.

D’altra parte, solo otto anni ci separano dal 2032, quando la Congregazione celebrerà i trecento anni dalla sua fondazione: una bella occasione per guardarsi indietro, fare il bilancio e riproiettarsi con una giusta e sacrosanta re-immaginazione.

Guardandoci indietro, possiamo dire che di stimoli non ne sono mancati, di tentativi ne sono stati fatti. Ho già menzionato il Piano di Vita comunitaria. Non sono mancati documenti belli anche da parte del magistero, come Vita Fraterna in comunità, che ci ricorda la grandezza e nello stesso tempo la fatica propria di ogni comunità, il passaggio dall’IO al NOI… D’altra parte, converrete con me che il secondo capitolo delle nostre Costituzioni è particolarmente bello e intenso, rappresenta un ideale alto se vogliamo, che pure si integra con alcune condizioni concrete di vita (comunità di preghiera, di persone, ordinata, di lavoro, di conversione, aperta e ordinata).

Poi succede nella realtà che il vissuto proprio delle nostre comunità comporti per molti il rischio – soprattutto per i neo professi o neo presbiteri – del cosiddetto “non capisco ma mi adeguo”. Per non dare fastidio, pro bono pacis… (in fondo in fondo anche il nostro ego è d’accordo) ci si adatta al meno, ci si adagia. Ultimamente si sono aggiunte come scusanti altre connotazioni del vivere in comunità, che il Generale ricorda nella sua lettera: “oggi le comunità sono più piccole, le agende personali sono molte, le relazioni sono cambiate, le nuove tecnologie sono entrate nella nostra vita e la vita comunitaria è diventata liquida… con relazioni spesso virtuali” (3. a).

Ciò nonostante, il p. Generale osa invocare maggiore qualità per la nostra vita comunitaria. È una parola – qualità – che ritorna ben undici volte nel documento. Sento “qualità”, e la parola rievoca in me il fascino delle cose fatte per bene, che si tratti di una tesi di licenza o di laurea (la metodologia!), o di un piatto preparato con amore, la passione di un Michelangelo nel pensare, scolpire e rifinire la Pietà, il montaggio del nostro film preferito, la cura con cui Mozart componeva le sue sinfonie. Dovremmo riservare alla comunità la stessa accuratezza, tutti e nessuno escluso, guardandoci da ogni tentazione di approssimazione.

Sento la parola “qualità”, e penso alla comunità come a una lampada posta sul lucerniere (Mc 4,21) per rischiarare un mondo come il nostro, fondamentalmente ispirato dall’individualismo. Penso che una comunità che cerchi qualità deve far suo un principio attivo implicito nelle nostre Costituzioni: approvate nel 1982, quindi a distanza di 42 anni (e sappiamo quanto questo numero voglia dire, in un’epoca accelerata come la nostra!) esse possono apparirci superate, almeno nella loro parte normativa. Ma il principio attivo che esse ci affidano è proprio un lasciapassare, un via libera che ci dice: il Redentorista è questo, la comunità Redentorista è questa, spetta a voi, qui e ora, in situazioni a volte cangianti e spesso spiazzanti, “inventare” quello che si può e si deve fare per salvare la sostanza. Orari di preghiera, frequenza di riunioni, momenti formativi: noi vi chiediamo di fare il possibile. Ma non è che di fronte ai limiti propri di ogni situazione, finite col buttare il bambino (la sostanza) con l’acqua sporca (l’impossibilità di tenere fede a certi impegni). Purtroppo, alla luce della mia esperienza, devo dire che succede proprio questo.

Ma la lettera del Generale non ci chiede solo di rispettare i processi decisionali, ci dice qualcosa in più, e qui ci vedo un salto di qualità che mi interpella. È là dove ci ricorda che “la comunità è il luogo in cui condividiamo la nostra esistenza, la nostra storia di salvezza e le nostre memorie di redenzione” (Conclusione). Il salto di qualità dovrebbe consistere nel ricordare che in ciascuno di noi convivono residui di umanità, situazioni legate al nostro passato e paure del nostro presente, limiti propri del nostro corpo o del nostro carattere, che in qualche modo abbiamo confinato in zone irraggiungibili a noi stessi. Sono spazi inguardabili e che pure ci appartengono, spazi che il vangelo con la concretezza del linguaggio semitico definisce impuri, e che pure Gesù guarisce. Sognare la condivisione di tutto questo nelle nostre comunità forse è impossibile. Ma almeno ricordarci che noi siamo anche questo, non può che farci del bene. 

Se le cose stanno così, la vera riconfigurazione – non solo delle nostre Unità ma delle stesse nostre comunità – dovrebbe consistere nel rimodulare i tempi, riprogrammare gli impegni, mettere le strutture al servizio delle persone, creare le premesse per l’ascolto reciproco (“Relazionarsi con gli altri è sempre imparare”, nr 1.b), fare delle nostre comunità dei laboratori di sinodalità. E tutto questo – si badi bene – non per un malinteso senso di comfort, non per fare della comunità un’isola felice in un mondo complicato: il tutto è per la missione. La prima che viene a soffrirne, da una visione autoreferenziale, è proprio la missione, perché tale visione ci porta ad essere predicatori per gli altri, senza vivere ciò che predichiamo (2.j).

E d’altra parte rimane, al di là di tutto questo, un ampio e decisivo margine della grazia. Non è detto che il salto di qualità, o il fatto di essere un segno testimonianza per questo mondo, automaticamente “funzionino”. Non è detto che siano premiati da una risposta vocazionale. Lo facciamo solo perché sentiamo che in questo nostro tempo, nella logica propria creaturale della evoluzione verso il bene, noi non possiamo sottrarci alla nostra vocazione. Alla fin fine diremo “siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10).

Umiltà

Per quest’ultimo punto vorrei riservare spazio a una virtù oggi quanto mai decisiva, l’umiltà. Al di là di un astratto esercizio ascetico, o della tentazione di servircene … per scansare la fatica, vedo l’umiltà come quell’asta in fibra di vetro o carbonio – flessibile e nello stesso tempo solida – che gli atleti usano per superare un’asticella posta ad altezze “impossibili” (6 metri e più), senza farla cadere.

Ci vuole umiltà per imparare dalla vita, e capire che essa non va avanti senza il carburante rappresentato dall’amore. Sono convinto che nel percorso spirituale di Alfonso – quello che giustamente è stato chiamato “esodo” – via dei Tribunali a Napoli è stata una tappa decisiva. Lì, in un angolo che ancora oggi sfugge all’occhio del turista, si trova la chiesetta di Sant’Angelo a Segno, luogo del suo primo ministero napoletano da sacerdote. Ancora oggi è un concentrato di vita effervescente e chiassosa. Possiamo immaginare che Alfonso all’improvviso si sia trovato davanti, a tempo pieno, gente umile che per guadagnarsi da vivere, per portare avanti una famiglia, per tenere a bada uomini dediti al vino e figli troppo vivaci, affrontava sacrifici e disperazioni di ogni tipo. Immaginiamo la domanda che gli sarà frullata nella testa: ma a questa gente, da dove viene la forza per andare avanti? E la risposta sarà stata la stessa che daremmo noi: è l’amore. Unicamente e semplicemente l’amore. La genialità di Alfonso è stata nel trasporre questa forza umana nel rapporto con Dio.

Ci vuole umiltà per imparare dai laici, per trasferire nell’ambito della consacrazione la stessa passione che anima le loro relazioni verso la persona amata, verso i figli. Ci fa bene leggere le poesie d’amore, o i versi di tanti cantautori di ogni nazione, per capire che l’amore non si arrende mai, l’amore dona ali sempre nuove, l’amore è sempre concreto e creativo, l’amore è quello che rimane alla fine, per dirla con san Paolo.

Ci vuole umiltà con noi stessi, perché soprattutto nelle fasi della giovinezza e della vita adulta un malinteso senso di libertà ci fa ritenere al di sopra di ogni giudizio. Quando arriviamo ad una età più matura, almeno a me succede, guardando a certi nostri peccati facciamo nostra la preghiera del salmista: “io ero insensato e non capivo, stavo davanti a te come una bestia” (Sal 73,22). 

D’altra parte bisogna essere umili anche per un motivo scientifico, con uno sguardo realista a quella che è la nostra scatola cranica, dove sono ospitati 90 miliardi di neuroni, ciascuno dei quali è capace di stabilire fino a diecimila sinapsi con i propri vicini (G. Tonelli, Genesi, 212). Vale a dire che anche le nostre presunte libertà (si intenda con questa parola i meccanismi affermatisi nella nostra vita, i nostri modi di pensare, le gratificazioni che ci concediamo, per non parlare delle trasgressioni) le paghiamo a caro prezzo: qualcosa si struttura nel nostro cervello, le sinapsi si consolidano, e sono difficili se non impossibili da destrutturare. Qualcosa d’altra parte in linea con il detto latino Natura non facit saltus.

Impossibili agli uomini ma non a Dio. La sua grazia può tutto, a condizione che facciamo un cammino a ritroso, e ci dedichiamo ad un esercizio altrettanto costante e paziente, per ritrovare un qualsiasi motivo profondo per la nostra consacrazione o il nostro ministero: che sia un rapporto vero d’amore con Gesù Cristo, che sia la retta intenzione, che sia la verità con noi stessi. Ma anche per questo esercizio ci vuole tanta umiltà.

Testi biblici:

Domande:

  1. Come fare perché la nostra comunità sia soggetto di missione?  Quale spazio dare al discernimento, per incarnare qui e ora il nostro servizio ai più poveri ed abbandonati?
  2. Cosa prevale nella nostra vita personale e comunitaria: la dimensione umana della ragione, o lo spirito proprio della contemplazione?
  3. Come cercare maggiore qualità nella nostra vita comunitaria, per rispondere al profilo della comunità redentorista disegnato dalle Costituzioni: comunità di preghiera (nn. 26-33), di persone (nn. 34-38), di lavoro (n. 39), di conversione (nn. 40-42) aperta (n.43) e ordinata (nn.44-45)? 

Fr. Serafino Fiore, C.Ss.R.


[1] Alcune riflessioni sulla qualità della nostra vita comunitaria


UN SOLO CORPO è un testo di preghiera proposto dal Centro di Spiritualità Redentorista. Per maggiori informazioni:

Fr. Piotr Chyla CSsR (Direttore del Centro di Spiritualità –  fr.chyla@gmail.com).